Letteratura
La ricognizione del dolore: Pier Paolo Pasolini
Di me lascio i segni della lotta contro un sempre oscuro nemico, e, insieme, di una resa indegna. La mia vita ha disceso una china, e la mia storia un’altra, al suo confine.
Sonetto Primaverile, XI (1955)
Quando Pasolini nel 1955 scrive questi versi, non sa quale sarà il suo destino, ma sa di essere un confine tra la sua storia e la sua vita, tra la rappresentazione e il suo manifestarsi, in parole povere tra estetica ed etica.
Comunista radiato dal proprio partito per indegnità morale, antifascista il cui fratello ventenne partigiano viene ucciso da altri partigiani, cattolico rifiutato e additato dalla Chiesa, Pier Paolo Pasolini muore ammazzato a sprangate sul cranio e nelle palle sentendosi dire parole come arruso (frocio) e pezzo di merda.
E se non è un Cristo questo, allora sarà almeno un povero Cristo e, siccome parlare di lui e del dolore sarebbe come imbastire un discorso sull’acqua e sul mare, si fa prima a nuotarci dentro.
Quando chiesero al regista cosa fosse per lui il dolore, egli affermò che fu la reazione della madre alla notizia della morte del fratello a formare in lui la cognizione stessa di questo sentimento.
Come la cassa di risonanza di una gamma di emozioni inesprimibili, la madre Susanna sarà sempre un rifugio e un altare per il poeta: quando scriverà di lei: “dalla tua grazia nasce la mia angoscia”, sintetizzerà quel mondo, che a guardarli insieme nelle foto, li fa sembrare due naufraghi.
Sarebbe ora di considerare lo sviluppo della cultura omosessuale nel Novecento come una tregua calata tra i sessi, una parentesi necessaria dove sono stati ridefiniti identità e ruoli, e in questo frangente la solitudine di Pasolini è quella di un artista che in qualità di confine cicatrizza con la sua opera i conflitti della sua epoca.
L’espressione individuale è sempre bilanciata da quella politica e la borgata diventerà per Pasolini una seconda madre, un mondo ideale, preindustriale e carnale in cui lo scrittore si immergerà per uscirne regista. Anche in questo passaggio Pasolini è unico, la parola e l’immagine in lui si passano il testimone, a riprova di quella brevettazione della realtà che la letteratura sta cedendo al cinema.
Consapevole che il mondo arcaico sta finendo sotto i colpi della mercificazione che ingloba le cose come gli uomini, Pasolini ha la colpa di mostrare spudoratamente il dolore, il suo dolore per questa particolare fine del mondo che l’Italia del boom economico nasconde “sotto il tappeto.”
La solitudine culturale, intellettuale o sentimentale del regista-scrittore non è stata un bene, sarebbe puerile accettare la solita equazione tra sofferenza e talento, perché il secondo ci sarebbe stato a prescindere dai processi e dalle angherie; se però artisticamente esiste una spudoratezza del dolore è anche perché è esistito Pier Paolo Pasolini.
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