Letteratura

La politica nel fango (secondo Bernard-Marie Koltès)

1 Dicembre 2014

È curiosa la parabola (italiana) di un autore come Bernard-Marie Koltès. È rimasto più o meno sempre ai margini del grande sistema produttivo, ha vissuto di fiammate di passione, di allestimenti anche importanti ma sparuti, rari nel tempo. Eppure, la prosa di quel francese bellissimo e acuto, morto di Aids nel 1989, è decisamente affascinante. Basti pensare a un testo come Roberto Zucco, canto all’anarchia e alla criminalità che non fa rimpiangere Genet; oppure a Nella solitudine dei campi di cotone, forse il testo più rappresentato per la sua viziosa ossessività; o ancora al bellissimo e crepuscolare Lotta di Negro e cani. La sua opera, sfaccettata, intima e politica, è stata affrontata dai maggiori registi europei – a partire da Patrice Chéreau, che in qualche modo l’ha fatto conoscere al mondo, passando per Stein, Milenin, Nauzyciel, Warlikowski e in Italia, solo per citarne alcuni, da Jodice, Adriatico, Claudio Longhi e recentemente Pippo Delbono – sempre con affetto e partecipazione emotiva, dal momento che quei testi sono, come dire?, febbrilmente aulici oppure appassionatamente algidi.

Uniscono, infatti, una lirica altissima, monologhi fiume scritti in una lingua ricca, rigogliosa, possente a situazioni (o banalmente trame) originali e umanissime.

Ben si colloca, Koltès, in quella nuova drammaturgia degli anni Ottanta del secolo scorso: un fiume ampio e non sempre facilmente navigabile, che sgorga da autori del calibro di Pasolini, Heiner Müller, Fassbinder, Peter Handke (che si sta riscoprendo anche in Italia), Botho Strauss, e cui affluiscono torrenti in piena come quelli di Werner Schwab, Herbert Achternbusch, Marc Ravenhill, assieme a Annibale Ruccello, Enzo Moscato e ai più recenti Bijliana Srbljanovic, Sarah Kane, Antonio Moresco.

Insomma, drammaturghi delle macerie, testimoni scomodi della sconfitta e del declino dell’umanità: uomini e donne che hanno raccontato – meglio di chiunque altro – la devastazione interiore e esteriore del postmoderno. Koltès, tra questi, è una voce comunque originale, svetta per intensità emotiva, per la lucidità con cui racconta passioni e desideri, per una deriva “sentimentale”, quasi melodrammatica, che però non esclude un forte afflato politico.

Pensavo, confusamente, a tutto questo, mentre assistevo alle prove di Quai Ouest, messo in scena a Prato dal regista Paolo Magelli. Ero stato chiamato a seguire l’allestimento, a incontrare Magelli, per fare con lui una lunga intervista da inserire nel programma di sala. Dunque ho avuto il privilegio di assistere alle prove, salvo poi tornare, ovviamente allo spettacolo che dopo il debutto al Festival di Spoleto è stato messo in scena al Fabbricone di Prato. Devo dire che il lavoro mi ha colpito, proprio per la sua cifra ampiamente e aspramente politica. Magelli, si sa, è un regista di solidissima scuola balcanica, ovvero sovietica: ha lavorato a lungo nella ex-Jugoslavia (e lì l’ho conosciuto), poi in Germania, e dirige spettacoli un po’ ovunque in Europa.

Forte di questa esperienza, giunse pochi anni fa alla direzione dello Stabile di Toscana e vi travasò un po’ di quel metodo e di quell’approccio: da subito una compagnia stabile, che lavora con registi diversi (dal rimpianto Castri, per un memorabile Ionesco, a De Monticelli e a giorni debuttano con Marco Plini) e un’attenzione febbrile al testo, alla drammaturgia del nostro tempo. Ad esempio, firma attraversamenti di Srbljanovic, di Horvart e ora, appunto, il Koltès di Quai Ouest. Lo spettacolo è già stato recensito: si è letto, dunque, del mare di fango in cui si svolge, dell’impianto arioso e puntiglioso con cui declina la partitura dell’Autore (cui fa da contrappunto vivacissimo e intenso la musica composta da Arturo Annechino). Ed è emersa bene la complessità dell’operazione: ma qui vorrei tornarvi, proprio per sottolineare due temi.

Il primo è legato al testo: ovvero la capacità quasi profetica di Koltès di narrare in quegli anni alcuni aspetti oggi di grande attualità. A partire dalla crisi “esistenziale” del capitalismo, incarnata in Quai Ouest da un manager, un banchiere, un ricco di qualche natura, che abdica a se stesso. Paolo Graziosi dà al personaggio di Maurice Koch un’indole stanca, devastata, esausta: sono spariti milioni di dollari e lui non sa che fine abbiano fatto, pur essendo responsabile. Che importa più? Solo una noia, una stanchezza, uno schifo. Ecco il crollo etico del capitalismo, ben prima della crisi di Wall Street.

Ma Koltès indaga anche, e soprattutto, sullo “scontro di civiltà”, ovvero su quanto e come l’immigrazione si traduca in una guerra tra poveri. È il nodo centrale del dramma. C’è un personaggio, il “negro” Abad (è bravo Francesco Cortopassi) con cui fare i conti. Non parla ma nell’epilogo sarà lui a fare piazza pulita. Ancora ci sono gli esuli di qualche guerriglia rivoluzionaria sudamericana, ormai disillusi; ci sono giovani pronti a tutto pur di guadagnare, pur di essere gli ultimi tra i primi, e non i primi tra gli ultimi.

Poi, voglio dire del gruppo che ha interpretato questo spettacolo.

Ho avuto il piacere, o meglio la fortuna, di veder nascere questa compagnia, ho seguito molti – non tutti – i passi che sono stati fatti. E non posso non registrare una grande crescita dei singoli e dell’ensemble. A partire da Valentina Banci, prim’attrice di acuta intelligenza e grande bellezza, capace di tenere le briglie di interpretazioni diverse – tragiche o comiche – con consapevolezza e partecipazione. Poi Mauro Malinverno, attore dalla cifra naturalmente surreale, sempre lievemente distaccato a se stesso, inquietante e sottile perno attorno al quale girano le dinamiche dello spettacolo. Qui emergono – addirittura si impongono – i più “giovani” del gruppo: Francesco Borghi, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone. Li ricordiamo un po’ spersi o affannati nelle primissime uscite della compagnia, e li ritroviamo sicuri, taglienti, efficacissimi, protagonisti futuri. Alla compagnia, oltre al citato Graziosi, si è unita per Quai Ouest, l’ammaliante Alvia Reale: ha il carisma di un’innegabile classe, ha la ferocia di una erinni, ha la poetica dell’essenzialità e la saggezza dell’autoironia.

Paolo Magelli, con i suoi attori, fa esplodere il conflitto di classe, la natura violenta delle relazioni umane messe in pagina sapientemente da Bernard-Marie Koltès. Racconta i fallimenti individuali e collettivi, mostra l’impossibile salvezza di quel microcosmo ormai corrotto. Un teatro sanamente politico ed esistenziale, dunque, un teatro che sa abbracciare il tempo, porgendo allo spettatore uno spaccato (sociale, artistico, culturale) con cui non si cessa di fare i conti.

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