Letteratura

“La piccozza” di Pascoli e il “Fitzcarraldo” di Herzog

5 Settembre 2015

Periodicamente  osservo  un piccolo rito personale: leggo “La piccozza” di Giovanni Pascoli. È una poesia racchiusa nella raccolta “Odi e Inni” del 1906 ed espone l’ascesa (si suppone umana e intellettuale) di un uomo che fa affidamento solo sulle proprie forze. La piccozza è l’attrezzo usato dagli alpinisti per arrampicarsi,  evocata dal poeta  per ascendere questo allegorico monte che è la vita. La cosa che mi colpì subito di  questa ode  è l’energia, la solitudine, la disperazione ma anche l’orgoglio di chi fa affidamento solo su se stesso per giocarsi la partita dell’esistenza. Bello è,  in questo componimento,  che quasi ogni strofa si apra con un “Da me” o “Per me”,  che in maniera onomatopeica dovrebbe simulare il colpo di piccozza necessario per arrampicarsi. Chiudete gli occhi e sentite i colpi di piccozza: “Da me” , “Per me”… Vi ricopio due strofe:

Da me, da solo, solo e famelico,
per l’erta mossi rompendo ai triboli
i piedi e la mano,
piangendo, sì forse, ma piano:

E salgo ancora, da me, facendomi
da me la scala, tacito, assiduo;
nel gelo che spezzo,
scavandomi il fine ed il mezzo.

Pascoli è un grande poeta, non certo per questa ode. Chi l’ha studiato bene  sa che non è solo  il poeta del Fanciullino o di  “X agosto” o di “Cavallina storna”, di “Valentino” o di “Romagna”, che pure tutti abbiamo studiato a scuola (e io le studiai sia a Firenze che in Sicilia) –  che per conto loro sono  componimenti di tutto rispetto e, per quelli della mia generazione, ancora fonte di commozione e di struggente ricordo per un’età della vita dove tutte le moltiplicazioni mentali sembravano possibili. Pascoli, dicono i critici attenti, è poeta meno nitido di quello che si pensa: è torbido e profondo, come certi abissi marini, e dal punto di vista formale non ha nulla da invidiare ai poeti simbolisti di più vasta fama.

Sì, ma perché mi piace tanto questa poesia  e perché ci ritorno spesso? Perché è la poesia della mia vita, e avrei voluta scriverla io. Come lui mi sono arrampicato nella vita scavandomi il fine ed il mezzo, da solo, facendomi da me la scala, tacito e assiduo. E alla fine di questa scalata cosa ho visto? Perché ho fatto tanta fatica? Per restare lassù in cima,  solo con le aquile, perché mi vengano a trovare,  seguendo i  riflessi nell’acciaio della piccozza che ho da me discosta, le stelle dell’Orsa.

Salgo; e non salgo, no, per discendere,
per udir crosci di mani, simili
a ghiaia che frangano,
io, io, che sentii la valanga;

ma per restare là dov’è ottimo
restar, sul puro limpido culmine,
o uomini; in alto,
pur umile: è il monte ch’è alto;

ma per restare solo con l’aquile,
ma per morire dove me placido
immerso nell’alga
vermiglia ritrovi chi salga:

e a me lo guidi, con baglior subito,
la mia piccozza d’acciar ceruleo,
che, al suolo a me scorsa,
riflette le stelle dell’Orsa.

Se avete visto il film “Fitzcarraldo” (1982) sapete certamente a  cosa servono  le grandi fatiche sia della vita che dell’arte. C’è questo pazzo di Klaus Kinski (pazzo nella vita e nei film) che disbosca mezza Amazzonia per trascinare una nave in mezzo alla giungla, costruirvi un teatro d’opera  e farvi risuonare con un grammofono al solo  beneficio dei pappagalli la voce di Caruso.  Questa metafora dell’arte e della vita è perfetta: non si fa che spostare lungo tutta l’esistenza grandi blocchi come le piramidi per custodire una mummia, ascendere montagne come nella “Piccozza” per stare per sempre con le aquile, sconvolgere la giungla per far sentire Caruso ai pappagalli.

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Già uscito su “Linkiesta” – Ripubblicato in occasione del 73° genetliaco di Werner Herzog che cade oggi 5 settembre

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