Letteratura
La paura di guardare il vuoto
Si è artisti solo al prezzo di sentire ciò che tutti i non artisti chiamano “forma” come contenuto. come “la cosa stessa”. Con ciò ci si ritrova certo in un mondo capovolto: perché ormai il contenuto diventa qualcosa di meramente formale – compresa la nostra vita.
Nietzsche, Frammenti postumi dell’epoca del Caso Wagner. Corsivi e virgolette sono di Nietzsche.
Non ho citato a caso l’aforisma, bellissimo, e verissimo, di Nietzsche. Un’amica, oggi, mi ha espresso la sua poca predisposizione alla lettura di Kafka. Afferma di non capirlo, di sentirlo estraneo, di non comprendere la ragioni psicologiche della sua narrazione. Che cosa vuole dirci? e quanto è verosimile ciò che ci dice? L’atteggiamento della mia amica corrisponde all’impostazione media dei lettori italiani di letteratura: quanto c’è di vero, la verosimiglianza, il messaggio che comunica, che problemi ha l’autore, e così via, tutti atteggiamenti fondati sull’analisi psicologica e contenutistica di un testo letterario. Che il testo possa avere molteplici letture, molteplici interpretazioni, non solo sfugge, ma è ritenuto se mai un limite, un difetto del testo, una mancanza di chiarezza. Tipico poi, che invece di chiedersi, per prima cosa, che cosa veramente dica un testo, ci si disponga subito all’accettazione o al rifiuto, in base alla propria istantanea impressione. Senza informarsi sul contesto, sulla cultura dello scrittore, sull’amito letterario in cui si inserisce l’opera. In parole povere, quasi sempre l’io di chi legge, i suoi bisogni, le sue richieste, prevalgono sul senso della pagina, come se il punto di riferimento principale fosse, sempre, l’io che legge e non l’opera che è letta. Ora, Kafka è, forse, insieme a Joyce e Proust, lo scrittore più grande del secolo. Ma anche, come Joyce, come Proust, uno scrittore assai complesso, dalla cultura assai articolata, inserito in una città, Praga, in cui si mescolano più culture, la tedesca, l’ebraica, la ceca, l’italiana, soprattutto per quanto riguarda la musica, la boema, e quella dei nomadi, che chiamiamo zingari, gruppo sociale e culturale che ha un immenso influsso sulla cultura della società dell’Impero Austriaco, compagine alla quale Praga appartiene. E immenso è anche l’influsso della cultura ebraica. Marginalmente, si può riflettere sul fatto che il librettista del Don Giovanni di Mozart, la cui prima rappresentazione si ebbe proprio a Praga nel 1787, Giovanni Da Ponte, è ebreo. Si può leggere in ciò anche la sua sensibilità per gli esclusi, gli emarginati dalla società, gli anomali, Figaro, Don Giovanni, le due donne del Così fan tutte, forse il suo capolavoro come librettista, assai diverse dall’immagine che i loro fidanzati si fanno di esse. Ma sorvoliamo su questo bisogno egotistico che prevale in genere nel lettore italiano sulla sostanza di ciò che legge, sono scelte individuali, sotto un certo aspetto legittime, purché però poi non si pretenda di elevare l’impressione soggettiva a giudizio critico. Anche se hanno un potente influsso anche nella critica letteraria italiana nelle trasmissioni televisive e radiofoniche dedicate a scrittori e libri. Ultimamente su radio3 si ascolta una rubrica sulla poesia statunitense contemporanea. Mai una parola su come queste posie sono scritte, la metrica, la scelta del linguaggio – l’altra sera appena un accenno – o la poetica del poeta. Ma molto sui problemi sociali espressi, sulle idee politiche, sulla psicologia del poeta. Credo, invece, in ogni caso, che uno scrittore non vada letto sempre con la lente della psicologia, né tanto meno dell’immediato rispecchiamento, sulla pagina, di una realtà o storica o sociale. Si racconta una storia non perché abbia un significato preciso, ma perché ne ha molti. È già detto lucidamente da Aristotele nella Poetica: la poesia è più filosofica della storia perché non racconta l’individuale, il particolare, ma l’universale. Gregor Samsa, nel racconto La metamorfosi (e non Le metamorfosi), è tutti noi, non è un’immagine dell’autore, o lo è nel senso che lo è anche di tutti noi. Chiarisco con un esempio. Quando ci s’interroga su quale sia la colpa di cui si accusa il protagonista del Processo, ci si fa una domanda che riguarda la realtà individuale di un personaggio, ma non ci si chiede perché quel personaggio vive sotto la minaccia di una condanna di cui non sappiamo la causa, il contenuto, la ragione. E questa causa, questo contenuto, la ragione è la vita stessa, la condanna che grava su ciascun vivente: la fine della vita, la morte, che comunque cade per tutti, dal lombrico, anzi dal microbo alla scimmia senza pelliccia, l’uomo, e cado in un momento imprecisato, che non si può prevedere, salvo quando sia la conclusione di una malattia. Kafka è ebreo. E ha una familiarità quotidiana con la Bibbia, con il Talmud, di cui riecheggia spesso massime e storie. Due libri, in particolare, ritornano spesso come riferimento o semplicemente come sottotesto, nella sua scrittura. Qoelet, che noi cristiani conosciamo con il titolo di Ecclesiaste, e il Libro di Giobbe. L’Ecclesiaste comincia con un versetto famosissimo, che potrebbe essere il succo di tutto Kafka: Vanitas vanitatum, et omnia vanitas. Vanità delle vanità, e tutto è vanità. Giobbe è colpito dalle peggiori sventure, perdita dei beni, morte dei suoi figli, dei servi e di tutta la sua famiglia. Gli amici lo invitano a domandarsi se ha qualche colpa di cui Dio lo punisca. Giobbe si dichiara senza colpe. Discutono per più giorni, alla ricerca delle colpe. Finché Dio stesso interrompe la conversazione: Ubi eras quando ponebam fundamenta terrae? Dove eri quando io ponevo i fondamenti della terra?
Che senso dare a qualcosa che non dipende da noi? Interrogarci sul senso della vita, perciò, non ha senso, perché è la vita stessa a non avere senso. Siamo noi che un senso lo cerchiamo, nella vita, glielo diamo. La letteratura, ma anche la politica, la vita sociale, sono modi di questa ricerca, di questa attribuzione di senso alla vita. La vita, in sé, non ne ha nessuno, tranne il fatto di essere vita e di volersi perpetuare. Siamo noi umani che pensiamo, anzi rendiamo umana la vita, la natura, la realtà. Anche quando diciamo che è crudele, cattiva, matrigna. Mentre invece è solo ciò che è, una realtà indifferente, estranea al pensiero e ai sentimenti. Almeno a ciò che noi umani riteniamo pensiero e sentimento. Lo so, è pessimismo assoluto, integrale. O meglio: è una constatazione radicalmente nichilista della realtà, ma non in senso distruttivo, bensì solo nel rilevarne l’assoluta assenza di un senso, di un fine, di uno scopo: è, e basta. La nostra idea di natura è appunto una nostra idea, non la natura, un dato culturale, non il rispecchiamento di una realtà. Questa assoluta estraneità della natura ai sentimenti e al pensiero dell’uomo è un’ipotesi già proposta un secolo prima di Kafka da Leopardi, anche lui assiduo lettore dell’Eccclesiaste e di Giobbe. Ciò non significa che noi non sappiamo, non possiamo intervenire nei processi naturali, lo facciamo da quando bipedi che usano utensili cerchiamo di modificarla a nostro vantaggio. Ma questo non significa che la conosciamo, significa che la usiamo. La conosciamo così poco che provochiamo disastri, senza saperlo, e quando veniamo a saperlo, continuiamo a fare disastri, perché non vogliamo rinunciare all’utile che ne ricaviamo. Ma rispetto a noi la realtà è il nulla assoluto, il nulla è la nostra sostanza, vanitas, il vuoto, il niente: ciò che chiamiamo la nostra cultura. Come dice anche Budda. A mio avviso, dunque, è questo integrale rifiuto di un senso delle cose che spaventa il lettore di Kafka. Ma bisogna accettarlo, rifiutarlo, se mai, se non ci piace, ma questo è il messaggio: siamo niente in un mondo che non significa niente. E Dio è un’illusione, per non vedere il niente. Cercare interpretazioni psicologiche non fa entrare nel senso della narrazione, che è simbolica, allegorica, allusiva. Secondo la più fedele e storica interpretazione biblica sia ebraica sia cristiana, ma eliminando da questa interpretazione la presenza di un Dio che sa, che guarda – rileggiamoci i saggi su Dante di Auerbach, o quelli di Scholem sulla Cabala -. Non ci piace? Si legga, allora, altro. Ma altri scrittori, anch’essi ebrei, del novecento, confermano la scrittura di Kafka, faccio solo tre nomi: Benjamin, Canetti, Celan. E adesso, rimboccatevi le mani, e leggete.
Magari con un preludio leopardiano: “Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte”.
(Zibaldone, 16 settembre 1832)
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