Letteratura
La passione struggente e la salvezza poetica in Keats
“Dolci sono i piaceri del verso, più dolce ancora la fratellanza del canto”.
L’amore della luna racconta gli ultimi due anni della vita di Keats, in particolare i mesi cruciali durante i quali abbandona la stesura di Iperione. Stroncato dai critici, tormentato dai debiti, il poeta è colto da momenti di massima disillusione.
Tre sono i nuclei tematici su cui la ricostruzione di Elido Fazi sembra focalizzarsi.
La partenza di Keats per l’isola di Wight ha sicuramente un peso rilevante. A Hampstead non riesce a lavorare con Funny Brawne che abita non lontano da lui, tuttavia la sua mancanza lo perseguita, lui che aveva sempre deriso i suoi amici innamorati ne subisce la malia, nelle numerose lettere le dichiara apertamente il suo amore, le confessa che avrebbe rinunciato alla sua gloria letteraria se lo avesse contraccambiato, addirittura arriva a baciare le sue lettere nella speranza il foglio si fosse intriso del suo odore. Amore e desiderio di morte si confondono, Keats rimane deluso perché nelle risposte alle sue lettere Fanny dà prova di virtuosismo nella scrittura ma non esprime il sentimento passionale che lui avrebbe voluto esprimesse. È sempre troppo tiepida, addirittura si risente e lo prende in giro per aver parlato in modo eccessivo della sua bellezza. Si sente perciò in preda di quell’amore che lo soggioga, lo addolora, lo rende prigioniero. Sebbene Keats reiteri lo stereotipo secondo cui l’uomo gioca al ruolo di cacciatore e la donna quello di preda, Fanny sfugge a quello stesso. Non si sente lusingata dall’esternazione della sua passione amorosa, ci gioca quasi, continuando a essere vaga e addirittura arriva a irritarlo quando, riduttivamente, gli dice che al loro primo incontro ha preferito lui all’amico pittore Severn. È una donna capricciosa, frivola, gli comunica che vuole divertirsi, non aspetta l’amato che senza veli si dichiara. Keats è geloso, quello è un amore che castra le sue aspirazioni letterarie al punto che nella sua fantasia il momento del suo pieno possesso coincide con quello della sua morte. Il mondo è ostacolo al compimento di tale amore, solo un veleno che scaturisse dalle labbra di Fanny potrebbe restituirgli la pace della morte.
“Lei mi punge intensamente!
Come un verme che si nutre all’interno di una noce,
così lei, come uno scorpione, preda il mio cervello!
Sento qui il suo morso”.
Vita e morte, perciò, si inseguono, opposti che non trovano conciliazione. La sua follia d’amore è quella dei libri che legge, è nei personaggi che delinea. In un racconto orientale, infatti, tutti gli uomini sono tristi per lo stesso motivo: una volta incontrata la più meravigliosa delle creature, questa scompare dopo averla abbracciata e aver chiuso gli occhi. Si trovano a terra su una cesta magica in preda alla malinconia per ciò che è diventato solo un ricordo perduto.
In un libro di storia trae la trama di un dramma, ambientato nel 953-954 durante la rivoluzione ungherese contro Ottone il grande, imperatore del Sacro Romano Impero, un intreccio di tradimenti, follia e morti precoci. L’amante della tragedia, Ludolfo, vive la sua stessa possessione amorosa. Se nei primi quattro atti della tragedia il suo lavoro si era limitato a tradurre in versi quanto Brown creava in prosa, nel quinto, rifiutando la soluzione trovata dall’amico per chiudere in bellezza e andare incontro al gusto del pubblico con un happy ending, fa di Ludolfo il suo alter ego. Il quinto atto, infatti, è dominato dalla pazzia d’amore del giovane raggirato dall’infida Aurante. Keats era un passionale a cui interessava poco la gloria terrena.
Aveva conosciuto Brown nell’estate del 1917 quando i Keats si erano trasferiti a Hampstead, qui avevano fatto amicizia con i Dilke che vivevano in una villetta bifamiliare, Wentworth House. Dilke è quello che Salinger avrebbe chiamato per bocca del geniale Teddy, un apple eater, un ragionatore; seguace di Godwin di cui condivide la tesi della continua perfettibilità dell’uomo attraverso un uso costante delle facoltà mentali. Keats, al contrario, pugnace sostenitore del potere intuitivo dell’arte, non prova simpatia per quell’uomo freddo e analitico.
La sua natura, già poco incline a mostrarsi servilmente compiacente ai gusti del pubblico, pressata dall’ardore della sua passione amorosa, lo induce a imprimere una svolta diversa alla tragedia: Ludolfo in preda alla sua feroce gelosia,esce da sé, perde cioè il controllo. Come Orlando perde il senno a causa del tradimento di Angelica, “ Fu allora per uscir dal sentimento,Si tutto in preda del dolor si lassa”, così Ludolfo, accecato dal furore o da altra passione, nel pieno del possesso delle sue sole facoltà mentali, decide di vendicarsi. Dopo l’uccisione di Alberto, amante di Aurante, per mano di suo fratello Corrado, Ludolfo costringe la donna a presentarsi al banchetto nuziale tra il brusio degli invitati che commentano quanto è accaduto e ironicamente dice:
“È naturale che ci siano sussurri. Mentre Eros baciava Psiche”.
La sua poca accondiscendenza verso l’amico e l’insistenza a voler scrivere un finale scelto solamente da lui, sono dettate forse dal fatto che aveva scoperto che Brown ci aveva provato addirittura con Fanny, mandandole una lettera il giorno di San Valentino.
Diversamente da quello dantesco che ci propone un modello di donna terrena e celeste, quello di Keats è un modello di donna in carne e ossa “la bella signora senza pietà ti ha preso in pugno, non hai più scampo”. È un sogno che non gli suggerisce eteree visioni o tranquille gioie, al contrario si sente sopraffatto, sente di non avere via d’uscita. Un’ossessione paragonabile all’amore maudit che lega Dante Gabriele Rossetti e Elizabeth Siddal. Lizzie come Fanny è una donna irresistibile e fatale, icona di donna attraente, così come raffigurata nella Beata Beatrix coi suoi lunghi capelli rosso tiziano che attira l’attenzione di pittori che fanno a gara perché posi per loro.
Altro nucleo fondamentale attorno al quale il saggio di Fazi ruota, è l’idealismo di Keats. Egli disapprova la politica imperialistica del governo, nell’”Isabella” aveva dipinto i due fratelli della fanciulla come due spietati capitalisti. Pensa anche di imbarcarsi come medico sulle navi che facevano la spola tra India e Inghilterra, gli balena in mente di andare in Sudamerica a combattere al fianco dei nazionalisti ribelli nelle guerre di liberazione. Il suo interesse per le cause politiche lo spinge a mettere in bocca a Ottone le seguenti parole:
“So che la base vera di ogni potere, è l franchezza una lingua che dica la verità al mondo,
e come il segreto e l’intrigo siano prova di paura e debolezza, e di uno Stato falso”.
Che cosa può fare uno come lui per l’umanità disgraziata, sfruttata, ignorante. Litteram non dant panem, lo sa bene lui che è uno squattrinato.
È stato colpito dalla figura di Henry Hunt, l’agitatore politico che per aver sobillato la folla vessata da nuove tasse su tè, malto e liquore, era stato arrestato. Ha sempre mostrato simpatie per la causa liberale, in occasione della pace di Parigi nel 1814 compone un sonetto in cui celebra la fine della guerra con la Francia e in cui agogna una pace che si estenda all’Europa intera.
L’America lo delude, non era la terra incontaminata in cui gli uomini avrebbero potuto costruire un mondo più giusto, al contrario, l’esperienza del fratello George irretito da un mondo feroce dove era facile incappare in uomini d’affari spregiudicati, gli apre gli occhi su un mondo che a dispetto delle dichiarazioni formali sull’uguaglianza e sulla felicità si rivela selvaggiamente competitivo. Il fratello George, che si era trasferito in America con la moglie, abbandonando alle sole cure di Keats il fratello Tom già gravemente malato per poi pretendere frettolosamente l’eredità, diviene l’incarnazione di quello stupido sogno di ricchezza. Il suo carattere indipendente lo aveva reso schiavo di un ingranaggio pronto a schiacciarlo, persino il suo modo d vestire con cappotti alla moda e pantaloni attillati rivelavano che era divenuto ormai un uomo d’affari dai modi spicci.
George è la Muriel Glass del racconto di Salinger “A Perfect Day for Bananafish”, poco profondo,incarna un mondo fatto di trasparenza, di abiti eleganti, che come i pesci banana si gonfia di velleità, di persone le cui unica passione e motivazione è rappresentata dal benessere materiale, dove consumare è l’imperativo in nome del dio denaro. Keats, invece, è il poeta invaso dalla poesia che arriva ad immaginare persino una sua lettera di presentazione al direttore del miglior manicomio di Londra, è Seymour Glass, il disturbato, prototipo dell’innocenza infantile, “il più povero della banda dei mendicanti”.
Altro motivo fondamentale presente nell’opera di Fazi è Il sentimento pervasivo della poesia e quello di profondo affetto che lega Keats a Brown. Questi, diversamente dal suo amico poeta, forse in virtù delle sue origini scozzesi, sa coniugare interessi culturali e abilità pratica. Sono le sue braccia che lo accolgono quando Keats cerca un porto sicuro dopo la morte del fratello Tom, è Brown a occuparsi delle questioni pratiche legate al funerale, a convincerlo a comporre per potersi procurare mezzi necessari alla sua sussistenza, è lui che cerca di aggiungere un contrappeso pratico ad un’anima così eterea che, sebbene indotto a chiedere prestiti al suo editore perché perennemente in ristrettezze economiche, non riesce a sottrarsi all’abitudine di concedere prestiti agli amici. È, ancora, con Brown che si stabilisce a Winchester nel suo ritiro volontario preso dalla smania di comporre.
Londra e i salotti letterari che aveva frequentato erano troppo lontani dal suo modo di concepire la creazione artistica, pieni di uomini con molte ambizioni e talvolta scarso talento che spesso credendosi artisti si facevano attrarre dal luccichio della dea ambizione come tante falene, intellettuali saccenti consunti da una febbre che eccita solo i cuori piccoli legati al possesso di ciò che ha una dimensione terrena.
La sua passione, invece, la poesia, è il demone per il quale sacrifica tutto. Richiede dedizione completa, lo assorbe anima e corpo: per la “signora poesia” rinuncia alla possibilità di una carriera nel campo medico, all’amore da cui volontariamente si separa, ostacolato anche dalle sue ristrettezze finanziare, mortifica le passioni del corpo per non lasciarsi sedurre da altre tentazioni. Come una Circe, vive per lei nel volontario confino di Winchester.
È lì che tra la splendida cattedrale, la biblioteca e quel muro bianco che può vedere affacciandosi dalla finestra della sua camera, il suo genio si fa prolifico. Compone negli ultimi due anni della sua vita “Isabella e il vaso di basilico”, “La vigilia di Sant’Agnese”, basato su una superstizione popolare e “Lamia”.
Non che lo scoramento lo abbandoni, procede in modo ondeggiante proprio come Anne la simpatica domestica zoppa il cui sorriso fa arrossire Keats. Spesso la poesia non gli concede riposo neppure durante il sonno, bussa alla sua mente lasciandolo in uno stato di confusione al risveglio, tra giornate trascorse a comporre e nottate a sognarla c’era ormai completa commistione.
Il poeta infonde anima e bellezza in ciò che vede. Proprio come Lamia che vuole tenere segreto il luogo che è ha visto il compiersi della sua passione amorosa con Licio, così per Keats la poesia è rifugio lontano da occhi volgari, è intimità delicata che si riverbera nei paesaggi descritti, negli alberi, nei ruscelli, nelle trote. È affetto che si scorge nelle lettere alla sorella a cui esprime il desiderio di parlare e raccontare favole nel giardino di casa. È fantasia fertile, eccitazione perenne accompagnata da un’immancabile melanconia.
La morte del fratello Tom,il ricordo della stanzetta nel Devon in cui aveva accompagnato la sua consunzione, imprimono una nota oscura nelle sue composizioni. “A thing of beauty is a joy for ever”, aveva scritto nell’Endimione; aveva creduto che nonostante la notte della vita copra di tenebra il mondo, il canto dell’usignolo continui a ammantarlo della sua bellezza, dimentico degli affanni e lasciandosi trasportare dall’ardore di ciò che sta facendo.
In seguito al grande dolore per la perdita subita, però, il poeta inizia a chiedersi se la poesia fa volare davvero sopra la contingenza della vita. In “Ode all’Usignolo”, versa tutta la sua disillusione, amarezza, sconforto poiché l’essere umano diversamente dal pennuto dal dolce canto che non ha conosciuto dolore, vive in un mondo in cui neppure bellezza e amore sono capaci di arrestare la vita in forme imperiture.
A cosa serve la poesia? È un delirio di folli? È forse lui quel cappellaio matto che Lewis Caroll avrebbe in seguito inventato? Del resto non aveva persino rifiutato un lavoro dignitoso come quello di commesso in un negozio di cappellai?
È ancora quel muro bianco a salvarlo dal suo disincanto: lo proietta al British Museum che aveva frequentato così spesso da conoscerne tutti i passaggio e corridoi, ricorda i vasi greci, urne in cui erano riposte le ceneri di un suo io precedente. Compone, così, “Ode su un’Urna Greca”, gli appare chiaro,adesso, che l’infelicità, la sofferenza sono l’altra faccia di un’unica moneta che porta impresso anche il volto della bellezza. La morte è sollievo solo se supera i confini delle opere mortali. Come quella storia di pastori avrebbe acquistato agli occhi di un lettore in cerca di compagnia una nuova vita, così il canto dedicato alla bellezza di un manufatto senza tempo, ovvero un’urna greca decorata con motivi classici, sarebbe diventato il simbolo dell’eternità proprio per il potere dell’immaginazione.
E se la poesia è assurta a depositaria di visioni e verità, le sue ceneri sono depositate nella terra che egli considera simbolo della lingua musicale per eccellenza: l’Italia. Arriva a Napoli nell’ottobre del 1920 in quel “warm South” in cui ritrova le atmosfere cantate nell’ode all’usignolo. Ci era arrivato grazie al denaro racimolato dagli amici, e tra essi fu il pittore Joseph Severn che gli fece da cuoco, domestico, infermiere e intrattenitore. Lo accompagna fino al suo ultimo viaggio a Roma,dove le loro ceneri riposano vicine.
Sulla lapide di Severn si può leggere ancora oggi la devozione a un poeta che lascia una traccia immortale nella storia della poesia proprio come recita il verso di apertura dell’ode all’urna greca: “ thou still unrivished bride of quieteness”
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