Letteratura
La nostra battaglia casa per casa con gli adolescenti
Questo libro doveva uscire in Italia giusto un anno fa ma, come per molte altre cose, ci si è messa di mezzo la pandemia. E dunque La mia battaglia, del giornalista belga Jérôme Colin, arriverà nelle librerie il 20 aprile, tradotto da Simona Mambrini ed edito da Einaudi nella collana Stile Libero Big.
A qualcuno potrà sembrare un libro di “prima”, appunto, perché non parla neanche per sbaglio di Covid-19 e tocca invece, tra i vari temi, anche la questione del terrorismo islamico: una cosa che a pensarci ora sembra remotissima, ma che ha fortemente segnato Bruxelles e il Belgio, negli ultimi anni.
Ma Le Champ de Bataille, il campo di battaglia, questo il titolo originale del libro (uscito nel 2018), descrive soprattutto la lotta quotidiana, epica, di un padre: contro se stesso – o meglio, contro la propria esperienza e le proprie convinzioni, in nome di un certo conformismo sociale – e contro quella specie di mulini a vento che sono i figli adolescenti.
Figure quasi mitologiche, mezzi bambini e mezzi adulti, che sembrano vivere in un’altra dimensione quando ti ignorano. E che ogni tanto, invece, ti attaccano con la violenza di giganti e con un livore che ti sorprende.
Colin sa di cosa parla, visto che ha tre figli ormai grandi. Ed è questo il motivo principale del successo del libro in Belgio e anche in Francia, secondo me: è una fiction molto realista. E ha avuto successo anche lo spettacolo teatrale, un one man show, tratto dal libro.
Da lettore, padre di adolescenti, che ha sofferto la scuola come istituzione, questo libro mi ha fatto soffrire perché mi sono immedesimato. Ma è un testo anche assolutamente divertente in certi passaggi.
Il protagonista, quando non sa come affrontare il figlio maggiore, Paul, e la realtà domestica, si chiude in bagno e tira fuori i suoi libri di viaggio, fantasticando sui futuri itinerari, o si rifugia in quelli passati. Gli scontri col figlio sono spesso comici, ma il padre li vive come eventi di rara drammaticità. Cosa che del resto vale per il rapporto con la moglie Lea, con la quale non riesce a comunicare, ma la cui stabilità, si convince, è ciò che tiene insieme la famiglia in un momento così difficile, quanto normale.
A un certo punto è il protagonista che si mette a reagire come un quindicenne ribelle, in almeno due episodi salienti. Ma un evento improvviso e che potrebbe far volgere la storia al dramma vero lo riporta coi piedi per terra. Così, il romanzo ha un happy ending, inatteso quanto liberatorio.
Con Jérôme Colin, dopo aver letto il suo libro in francese, a fine 2019 ho intrapreso una corrispondenza email. A causa del Covid ancora non siamo riusciti a incontrarci a Bruxelles, dove lui vive e io ho vissuto e torno ogni tanto da amici. Gli ho posto alcune domande.
Quanto di quello che racconti nel libro lo hai vissuto in prima persona?
“Ho tre figli, molto vicini tra loro per età. Dunque c’è stato un momento in cui a casa avevo tre adolescenti. Una situazione a cui non ero assolutamente preparato. I conflitti incessanti. E poi c’è questa cosa per cui all’improvviso si allontanano da te. Per me, è stata una forma di lutto. Di dover dire addio ai miei ragazzini. Il tutto aggravato da questi scontri senza posa. A un certo punto, ho avuto l’impressione che la mia famiglia fosse diventata un campo di battaglia. Quando rientravo a casa, la sera, dopo il lavoro, prima di parcheggiare l’auto, inspiravo profondamente. E mi dicevo: eccoci di ritorno al fronte, sul campo di battaglia. E spesso non passavano neanche cinque minuti che la battaglia scoppiava. Quello che racconto nel romanzo, quegli avvenimenti, non sono accaduti. Ma l’atmosfera a casa e tutte le domande che si pone il protagonista sulla paternità, quelle sì: mi è successo o ci ho pensato.
Come hanno reagito i tuoi figli al libro?
Li ha fatti molto ridere. Si sono un po’ riconosciuti in alcune scene. E ci hanno riconosciuto. Ma hanno anche percepito bene la distanza tra noi e il romanzo. Il passaggio più delicato, alla fine, è stato quello delle scene di sesso tra i genitori. Abbiamo dovuto avvertirli che era un romanzo…
Pensi che le donne siano più stabili, rispetto agli uomini, nella relazioni con gli adolescenti?
Sì, penso davvero che le donne siano più stabili degli uomini, a questo livello. Credo che noi andiamo in panico più facilmente, sui grandi interrogativi. Loro la prendono con maggiore distanza. Per me, era importante farlo vedere. Mostrare che mia moglie era la chiesa in mezzo al villaggio. La roccia. Lo zoccolo duro. Colei che ha fatto sì che tutto abbia tenuto e che le mura non abbiano ceduto.
Si può superare lo stress che dà il rapporto con i figli non pensando solo ai cambiamenti negativi? Ho molto apprezzato il tuo invito a dire che li amiamo, sempre…
In effetti, credo che ci sia solo quello, che conta. Nel romanzo a un certo punto ho scritto: “Ti amo. Alla fine, non bisognerebbe dire che questo ai nostri figli. Almeno fino ai dieci anni”. Quando raggiungono l’adolescenza, prendono le distanze e poi i conflitti si accumulano, alla fine ci dimentichiamo di dire loro che li amiamo, perché siamo troppo occupati ad avere paura per loro o ad affrontare i conflitti.
Tu hai odiato la scuola. Pensi che la scuola non ci aiuti in qualche modo, come genitori, a superare il conflitto coi figli? Non è un’istituzione da difendere, in fondo?
Allora, questo è un tema importante. Penso che il ruolo della scuola non sia quello di aiutare i genitori, ma di ristabilire un equilibrio tra chi è nato nelle migliori condizioni e chi no. Ma in realtà, non lo fa. Il problema maggiore con la scuola è che non riesce a essere autosufficiente, non basta. la scuola crea molti conflitti in casa. Una valutazione negativa, una brutta pagella, un rimprovero sul comportamento, dei compiti da fare: tutto ciò viene portato a casa e crea nuovi conflitti di cui faremmo volentieri a meno. Quello che rimprovero alla scuola è che non è adatta ai tempi in cui viviamo. Che è spesso violenta con i ragazzi, che li schiaccia, a volte li frantuma. E che porta troppi conflitti in famiglia.
Il bagno di casa, o lo studio, è veramente un rifugio, per te? Confesso di essermi molto immedesimato…
Il mio studio lo è. Talvolta mi isolo lì per respirare un po’. Per il romanzo, ho scelto il bagno perché mi sembrava più romanzesco. Abbiamo tutti un luogo dove evadere: per alcuni è l’amante, per altri lo sport. Per me, è lo studio e il bagno.
Come è nata l’idea di fare del libro uno spettacolo teatrale?
Sono stati quelli del Théâtre de Poche di Bruxelles che hanno letto il libro, che qui in Belgio ha avuto un grosso successo. Mi hanno semplicemente proposto di adattarlo come monologo teatrale. Dato che li conoscevo per il loro lavoro e la bravura, ho subito detto di sì.
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