Letteratura
La Natura Esposta, cronaca di un corpo a corpo tra un uomo e Cristo
«La Natura Esposta viene da un ascolto. È un racconto teologico: se il mondo e le creature viventi sono opera di una divinità, ogni racconto lo è necessariamente». Non è facile parlare del romanzo di Erri De Luca, La natura esposta (ed. Feltrinelli), perché, al netto dell’ossatura principale del romanzo (la storia di un artigiano incaricato di restaurare un crocifisso), c’è davvero tanto in un racconto di sole 123 pagine.
È un libro che parla di clandestini, di frontiere, di alpinismo, di montagna, di una città di mare. Parla ancora di religione, filosofia, di arte, scultura, e di nudo. Un contenitore in cui Erri De Luca non lesina le sue conoscenze, e racconta infondendo quel senso di personale visione che dischiude nuovi varchi di significati.
È un romanzo che trasuda spiritualità, una spiritualità laica che spinge il protagonista, uno che si arrangia guadagnandosi la vita a fare piccoli aggiusti di statue nelle chiese, a ricercare, documentarsi, comprendere le ragioni dello scultore artefice di un crocifisso, per poter poi procedere al restauro che richiede un rifacimento della natura esposta, il sesso appunto. Questa, infatti, sarà inevitabilmente danneggiata successivamente alla rimozione del drappo che lo ricopre.
La storia del crocifisso di cui bisogna recuperare il formato originale, quindi la nudità bandita successivamente al Concilio di Trento, è la storia di un avvicinamento fisico alla sofferenza. Diversamente dal Crocifisso posto a distanza sull’altare, infatti, in questa storia si approfondisce la vicinanza in quanto vi è un risalire non solo all’originale della sofferenza scolpita sulla statua, ma all’origine di quella storia. Una storia che è profondamente fisica poiché durante il suo iter terreno, come qualunque essere umano, Gesù di Nazareth sperimenta il dolore sul proprio corpo.
Durante le sue ricerche di approfondimento, il restauratore si accorge che lo scultore ha seminato dei segni sul corpo della statua. Alla pena della crocifissione accresciuta dall’umiliazione per la nudità mostrata presso un popolo pudico come quello ebraico, si aggiungono, infatti, tracce dell’umana sofferenza come l’increspatura della pelle causata dal freddo, ferite, una grinza probabilmente prodotta da un crampo. Soprattutto, scopre nel corpo del Cristo morente un impeto di vita che non vuole saperne della morte: l’accenno all’erezione, probabilmente uno spasmo che coincide con l’apice del supplizio.
Scopre, infine, che più che affidarsi a lezioni di anatomia o a studiare modelli l’artefice della statua ha usato se stesso, il proprio corpo, allenandolo a contorsioni e allenamenti per riuscire a raggiungere il più alto livello di approssimazione nel tentativo di imitazione del supplizio. In un gioco quasi ipnotico, dando vita ad una imitazione di seconda mano, il restauratore imita lo scultore e il Cristo allo stesso tempo al punto che, al pari di un attore alle prese con il metodo Stanislavskij, deciderà di farsi circoncidere.
Nel suo desiderio di alta fedeltà di riproduzione, il restauratore si reca anche al Museo Archeologico di Napoli in cerca ispirazione dai nudi precristiani, ma dinanzi all’osservazione del nudo di Ercole si accorge che in quelle statue la proporzione tra la natura denudata e il restante del corpo è solo un dettaglio; le dimensioni ridotte rispondono a un ideale di bellezza, nel suo crocifisso, invece, la nudità non è una minuzia, ma il culmine del supplizio.
Se nel suo lavoro di intaglio su sassi e rami dei nomi degli innamorati egli celebra un amore che duri senza sbiadire, nel suo lavoro di restauro sarà guidato dall’ amore per quella statua la cui sofferenza lo muove a compassione. Quest’ultima è intesa nel senso più profondo di volontà di partecipazione alla sofferenza. Dinanzi a quel martirio non prova devozione, sente il sangue, i nervi, l’intero corpo della statua e avverte persino l’ impulso a riscaldarlo, un sentimento “terrestre”. Terrestre è il sentimento di pietà poiché la nudità espone la parte più indifesa del corpo agli urti, alle aggressioni, ai rischi.
In realtà il senso di humana pietas avvolge l’intero romanzo nella persona dello scultore che tra l’altro fa anche da trasportatore di clandestini, li aiuta a attraversare i confini per sentieri impervi di montagna, rifiutando di accettare denaro per il servizio reso.
«Ritornavo leggero senza quel denaro, senza sentire la fatica della notte andata….Se avessi avuto la spinta dei soldi, non mi sarebbe bastata per partire». Ritroviamo qui lo scrittore che, vicino alle sofferenze dei profughi già documentate in “Solo andata”, così come nella sua preghiera laica al Mediterraneo e in tante pagine dei suoi romanzi, rende il protagonista di quest’ultimo un ascoltatore di storie dalle sorti strampalate e di gente che conosce modi nuovi di morire: asfissiati in una stiva o assiderati nel vano di un carrello aereo
«Al porto arrivano famiglie infreddolite, partite alla rinfusa da spiagge e non da porti, da tende e non da case. Vengono sistemate in posti di ammasso, il tempo per loro di capire in che punto di mondo e di viaggio si sono inceppati».
In questo romanzo, l’amore è variamente declinato: all’amore per quella statua che si traduce in una scelta di restauro rischioso, fa da contraltare l’amore perduto per una donna che, nel tentativo di spronarlo a mostrare le sue capacità e di dare importanza a quello che faceva, lo porta in giro per mostre e musei, cerca di farlo conoscere alle gallerie d’arte a cui invia foto dei suoi lavori, gli organizza persino una mostra. «Lei mi considerava migliore e maggiore di quanto facevo».
Un amore che perderà in quanto, incapace di dimostrare, non riesce ad essere all’altezza dell’immagine che la donna ha di lui, un amore in cui è possibile scorgere anche una dimensione sacra nella misura in cui lei cerca di incoraggiarne il valore. La perdita di questa donna respinta dalla sua inerzia, sarà presenza costante, pensiero ricorrente che diventerà autoconsapevolezza quando l’operaio algerino gli spiegherà che vivere da musulmano vuol dire “manifestare con gratitudine i doni ricevuti”, e che essere brillante e magnifico senza diminuirsi incoraggia e dà esempio agli altri
De Luca usa parole intense per descrivere quest’amore nella sua duplice componente sacra e profana. «Senza di lei si è staccato pure il desiderio, è divenuto persino neutro, non prova piacere. Non succede due volte di essere amato con l’intensità di una missione». Se per lo scrittore napoletano le parole sono “il più prezioso arnese degli oppressi” perché anche Cristo offeso dovette farsi voce e intercedere con la sua richiesta di perdono, nella sua opera di scavo, cesellatura e restituzione delle parole restaurate, dense di un significato nuovo, egli mostra un amore verso i tanti cristi che patiscono sofferenze diverse ma ugualmente sofferte, così come verso l’umanità tutta a prescindere dal credo religioso.
E così attraverso le parole tratte dal Cantico del parroco sudamericano, affidatario dell’incarico del restauro, imparerà che l’esperienza d’amore coincide sempre con quella del timore di perdere la persona amata e di perdere perciò se stessi. Dalle parole dell’ operaio mussulmano e del rabbino imparerà che la divinità non risiede nelle atmosfere celesti, ma nel gratuito svelarsi di un’umanità spesso inascoltata, che non ha diritto di parola, che procede ad occhi bassi. Apprenderà che proprio la parola occhio sia in arabo sia in ebraico coincide con sorgente : è “fonte di lacrime e di vita” in ebraico, “una pupilla che ha l’onore di produrre il seme della vita” in arabo.
«Le parole delle loro scritture sono appigli per andare e tornare dall’abisso». Quella di cui Erri De Luca ci narra, è una misericordia che, come l’etimo della parola suggerisce, è estrema declinazione di un soccorso verso il bisognoso, legame che unisce l’umanità e che si traduce in una condotta autentica. E’ una misericordia che, come Papa Francesco ha annunciato, “ci relaziona all’Ebraismo e all’Islam”.
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