Letteratura

La mano buona. Primo Levi ancora con noi

11 Aprile 2024

Anni fa Cesare Segre si è chiesto quale sia “il modo più efficace per parlare della Shoah” (Cfr. Cesare Segre,in Tempo di bilanci, Einaudi, pp. 297-298).

Ci sono due percorsi proponibili:

il primo batte la strada della rappresentazione integrale. Il rischio è quello dei cartografi dell’impero descritti da Borges, ma  anche l’impossibilità di dare voce a tutte le voci (come alla fine sostiene Primo Levi ne I sommersi e i salvati).

Il secondo consiste nel lavorare su singoli comparti, ovvero ricostruire un cosmo, e dunque un sistema, per componenti. In questo senso procedere per via analitica scegliendo delle voci capaci di illustrare un percorso di lunga durata.

 

Rispetto a questa seconda questione il problema mi sembra ridursi a queste due ipotesi: insistere sul piano della storia particolare, ovvero se analizzare lo sterminio degli ebrei d’Europa come storia dell’antisemitismo, da cui trarre una nuova coscienza di sé, tanto degli ebrei, come di chi ebreo non è. Oppure considerare quella storia in una chiave universalistica, vedendo e valutando i problemi che quello scenario apriva. Uno scenario che non poteva dirsi concluso con l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz.

La scrittura di Primo Levi ruota essenzialmente intorno a questa doppia questione e sceglie l’asse universalistico di riflessione. Ossia il secondo.

Più precisamente: mentre Elie Wiesel è ebraicocentrico, ossia si preoccupa del modo in cui il mondo ebraico sopravvive e ricostruisce una visione di sé di fronte e in risposta alla sfida della Shoah, in relazione alla ricostruzione di una propria identità, Primo Levi lavora su un versante diverso e si chiede:

·         Quale effetto ha quell’evento su tutti?

·         Con che cosa tutti devono misurarsi?

·         E, infine: che cosa inaugura quella vicenda per tutti?

Non diversamente Zygmunt Bauman.  Nel suo Modernità e olocausto (Il Mulino) egli riprende l’eco di quella sollecitazione. Lungi da essere una deviazione rispetto al percorso della modernità felice o equilibrata, la Shoah rappresenta per Baumann un’approssimazione imperfetta a un possibile esito conclusivo: un campanello d’allarme, anziché la variabile impazzita propria di un percorso di follia.

Anche per questo è importante indagare le componenti di quel percorso proposto da Primo Levi. Ovvero i singoli comparti.

Se Calvino ha dato preminenza al rapporto mente/occhio, in  Primo Levi è la mano a prevalere. Diversamente: mentre per Calvino è l’atto della visione a tornare frequentemente nella sua traccia narrativa (così in Palomar, ma anche le capitolo “Visibilità” delle sue Lezioni americane, il testo che in un qualche modo siamo indotti a leggere come suo testamento), in Primo Levi è il gusto del manufatto, di ciò che la mano può fare – e soprattutto “creare” – ad attrarlo e a costituire una costante nella sua riflessione.

Le mani esprimono una carica di violenza che Primo Levi non ignora. Tuttavia la mano è presente nelle sue pagine soprattutto in quanto capacità di creare, di fare e, soprattutto, di “saper fare”.

Il linguaggio delle mani come atto creativo è indubbiamente il tema di La chiave a stella, il testo uscito nel 1978 considerato come la prova più ottimistica della sua prosa. Le mani di Faussone sono il protagonista di quelle storie.  Storie che rappresentano il “corpo a corpo” costante con i comportamenti bizzarri degli oggetti che egli si trova a maneggiare e a tentare di “domare”.

Quelle mani prima ancora di essere tecnicamente “buone mani”, sono umanamente “mani buone”. Mani non solo efficaci, ma che, soprattutto, non fanno male. Anzi, meglio: mani che non causano male.

A suo tempo rispetto alla “gioia del lavoro” di cui le pagine di La chiave a stella sono piene, ci fu una reazione antilavorista che teneva ferma l’immagine del tempo di lavoro come costrizione, e rispetto alla quale si trattava di rivendicare non solo l’autonomia, ma l’evasione. Faussone sembrava il prodotto più distillato del processo di alienazione, della perdita della propria personalità a fronte di una macchina “mangia uomini” rappresentata dalla fedeltà al proprio mestiere.

Non credo che questo aspetto colga l’essenza della riflessione di Levi che, anzi, mi sembra muoversi in direzione opposta.

All’origine della riflessione di Levi sulla mano e la sua “potenza” sta il rovello su come affrontare la questione del Lager (inteso come il luogo dove l’alienazione si manifesta al più alto livello).

Egli segue due percorsi: da una parte la ricostruzione integrale di quel cosmo in tutti suoi aspetti (è il percorso più battuto o più noto e che ha i suoi punti di forza nelle pagine di Se questo è un uomo e ne I sommersi e i salvati); dall’altra lo sguardo acuto su alcuni aspetti apparentemente marginali.

In questo secondo percorso, che mi sembra quello più trascurato, egli concentra la sua attenzione su dei “pezzi”, su delle componenti che consentono di comprendere il funzionamento di quella gigantesca macchina.

Quei pezzi, apparentemente marginali, sono le spie indiziarie del processo di alienazione rappresentato dal Lager: l’inaridimento della lingua; l’abbassamento, fino all’annullarsi, dei legami di solidarietà; la rivalità fra prigionieri; l’annullamento della cura di sé; la perdita della dignità; l’azzeramento dei sentimenti, tra questi la vergogna. Infine la dimensione schiavistica del lavoro.

E’ proprio in relazione alla questione del “lavoro schiavo” ovvero del suo degrado che si collocano le mani buone di Faussone.

Il tema del lavoro è dunque significativo perché consente di riflettere non solo sul degrado, ma anche sulla resistenza al degrado.

 

Indubbiamente nella categoria della qualità delle mani buone c’è un modo di rispondere da una parte alla violenza delle mani nel sistema concentrazionario, quelle dei carnefici, e dall’altra alla degradazione delle mani, quelle degli schiavi, i reclusi in Lager, coloro che non si lasciarono travolgere dalla macchina di morte e provarono a resistere alla propria morte annunciata. Nel loro caso mani schiave di un lavoro schiavo. Quelle mani rese schiave indicano soprattutto un degrado del lavoro, anzi più precisamente della civiltà e dell’etica del lavoro.

Anche per questo una delle prime lezioni apprese in Lager, è che non bisogna trascurare la qualità del proprio corpo, non per un valore estetico, ma per uno etico, perché uno dei modi per valorizzare il proprio “Io” consiste proprio nel non lasciarsi degradare (è la prima lezione che Primo Levi apprende da Steinlauf e che riporta nel capitolo “Iniziazione” in Se questo è un uomo).

Lo stesso vale per il lavoro. Come dirà nel 1986 nell’intervista a Philip Roth (ora ricompresa in Conversazioni e interviste, pp. 84-85): “Per quanto mi riguarda sono ben consapevole che dopo il Lager il lavoro, anzi,i miei due lavori (la chimica e lo scrivere)hanno avuto, e tuttora hanno, un’importanza fondamentale nella mia vita. Sono convinto che l’uomo normale è biologicamente costruito per un’attività diretta ad un fine, e che l’ozio, o il lavoro senza scopo (come l’Arbeit di Auschwitz) provoca sofferenza e atrofia. Nel mio caso (…) il lavoro si identifica con il problem solving, il risolvere i problemi.

Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale.”

Fare bene il proprio lavoro non voleva dire sottomettersi al proprio padrone, a colui che dispone del prigioniero come un oggetto, ma dimostrare a se stessi di non essere una cosa.

Non solo.

Rivendicare il lavoro apre un doppio percorso: indietro, verso il passato e avanti in merito alle sfide che il presente pone al termine del ciclo dell’uomo macchina ovvero del lavoro taylorista.

In entrambi i casi le mani costituiscono un elemento su cui concentrarsi.

Considero il primo caso. La nostra attenzione deve rivolgersi alla catena simbolica inaugurata dal progetto dell’Encyclopédie di d’Alembert e Diderot, dove proprio le mani costituiscono un motore  essenziale e che, non casualmente, per la prima volta fanno il loro ingresso come protagonista dell’universo del lavoro. “Work” non compare nella Cyclopedia di Chambers (1728) E lo stesso avviene anche nel Dictionnaire historique e et critique di Pierre Bayle  (1697; ma si veda anche la quinta edizione (1740) quella ritenuta più corretta e completa).

Più precisamente. Quando nel 1751 esce il primo dell’Encyclopédie la tavola del sistema figurato delle conoscenze umane abbatte la ripartizione che sanciva tradizionalmente la dominanza delle arti “liberali” su quelle “meccaniche” ed è proprio nella voce “art” che Didedrot spiegherà che l’origine delle arti “nell’industria umana applicata alle produzioni della natura”. Questa fonte comune delle scienze e delle arti successivamente si biforca in un’attività speculativa che “riguarda la conoscenza inoperativa delle regole dell’arte” e in una funzione pratica (“l’uso abituale e non ponderato delle medesime regole”).

Introdotta questa distinzione, diventa impossibile da questo momento distinguere e tenere separate pratica e speculazione. Nel disegno di Diderot risultano entrambe indispensabili. “E’ la pratica a presentare le difficoltà e a dare i casi, ed è la speculazione a spiegare i fenomeni e a superare le difficoltà”, scriver Diderot. Non solo. Esaminando i vari effetti delle arti Diderot introduce, inoltre, un ulteriore elemento di attenzione, distinguendo tra quelle attività che impegnano fondamentalmente l’uso della mano e quelle che concentrano l’esercizio della riflessione astratta.

Pur riconoscendo la fondatezza di questa distinzione, Diderot contesta la sottovalutazione delle arti che mobilitano la destrezza della mano.

La mano così riacquista la sua centralità nella nuova immagine antropologica composta e proposta dagli illuministi.

Si prendano per esempio le tavole che hanno come protagonista la mano (nel volume IX delle Planches). La mano è lì definita – in base al detto di Anassagora – come lo strumento cui l’uomo deve la saggezza, la conoscenza e la sua capacità di dominio della natura. La mano, dunque, rientra nella definizione nuova del lavoro e la sua riabilitazione corrisponde alla “redenzione” delle attività meccaniche. La mano allora non sarà più il tratto marginale rispetto all’attività pensante che sta al centro della raffigurazione. Essa acquista ora la sua autonomia nel gesto di destrezza dei suoi esercizi intelligenti e costruttivi.

 

Questo se noi ci collochiamo a monte del ciclo industriale moderno. Ora collochiamoci alla fine di quel ciclo, ovvero agli effetti indotti dalla crisi del fordimo.

In questo caso sono le riflessioni proposte da Richard Sennett nel suo L’uomo artigiano (Feltrinelli) quelle a cui dobbiamo prestare attenzione. Non solo rispetto all’orgoglio del saper fare, ma anche alla qualità del suo fare, al fine di fare bene.

Il tema della mano ritorna nella riflessione della qualità del lavoro, sulla qualità del prodotto. Questo risultato dipende da vari fattori, in gran parte determinati dal fattore umano. Un fattore a lungo trascurato perché trasferito nella macchina.

La qualità del lavoro dipende, dalla definizione di una filosofia del gruppo di riferimento. In termini di coesione, ma anche crescita professionale. Si crea coesione se si condividono le competenze, ovvero se si agisce in senso contrario alle procedure proprie di una struttura rigidamente gerarchizzata dove il problema è soprattutto la gestione ottimizzata delle risorse, ma non la crescita degli individui.

Ma la crescita degli individui vive anche dell’innalzamento della qualità dei rapporti dentro il gruppo, ovvero se colui che detiene la competenza trasferisce conoscenza sulla qualità a chi esperto non è.

È ciò che si chiama costruzione del rapporto fiducia. Più estesamente è il principio della cooperazione, connesso a quello della crescita di conoscenza. È il tema della capability, delle capacità potenziali su cui ha insistito a lungo Amartya Sen, e su cui si è costruita una politica della crescita del talento.

Ma accanto al tema del talento si pone il problema dell’orgoglio, fattore tanto più decisivo e rilevante nell’ambito dei lavori tecnici (è il tema proposto da Levi attraverso Faussone, ma anche a proposito del comportamento del muratore italiano cui deve la vita). Ma non solo.

È il tema su cui Sennett richiama l’attenzione a proposito degli artigiani come individui orgogliosi delle abilità che maturano. Non è solamente un aspetto tecnico. Quest’orgoglio riguarda anche la dimensione etica di ciò che si fa, dell’atto che si compie. Nel momento in cui si compie un atto e si dà forma un oggetto la domanda è: a che servirà? Come sarà usato? Ha una funzione di ausilio? In breve il problema non è solo il fare, ma anche il fine del proprio fare e l’uso che si farà di ciò che è l’oggetto concreto del proprio fare (è il corpo di domande che non si pone, nel sistema delle relazioni il chimico che governa il laboratorio della Buna,; ma si potrebbe osservare è il principio del funzionamento della macchina del nazismo: quella idea di fare lavoro senza domandarsi il fine è la stessa che caratterizza il comportamento di Albert Speer, come ha ben mostrato Gitta Sereny, nel suo In quelle tenebre). Il problema non è mai solo cosa si fa, ma anche che domande si fanno a se stessi in relazione a ciò che si fa.

 

Il produrre riguarda una costante misurazione tra mezzi e fini, in altre parole presume una riflessione sulla propria attività. Lì si pone il problema dell’etica del lavoro, ma anche la qualità delle mani che lavorano. Buone mani, ma anche mani buone. Appunto. Uno degli assi strutturali intorno al tema del lavoro, in questo XXI secolo, è ancora lì.

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