Letteratura

La lunga fedeltà di Amos Oz

1 Gennaio 2019

Forse bisognerebbe guardare oltre i titoli dei libri di Amos Oz e provare a fare una mappa della loro traduzione (della geografia, ma anche della cronologia di quella traduzioni. Per una lista aggiornata si può vedere qui). Credo che ne uscirebbe un quadro interessante, che non riguarda Oz, ma come i molti mondi della lettura e delle culture si sono misurati con lui, interrogandosi (forse) o evitando di interrogarsi con la sua dimensione pacata e contemporaneamente scandalosa.

A ottobre scorso, per la traduzione di Elena Loewenthal, Feltrinelli pubblica Finché morte non sopraggiunga, un testo finora rimasto in sordina.

“Mi comprerò un binocolo molto potente. Al riparo da occhi indiscreti scandaglierò l’orizzonte del mare. Sarò sempre di guardia. Fintanto che tutto questo durerà, ci sarò pure io. Proprio come tutti gli altri. Ma quando un giorno scoprirò delle lunghe navi grigie laggiù, in fondo all’orizzonte, sarò il primo a dare l’allarme”.

Sono le righe di chiusura di Amore tardivo racconto di Amos Oz che costituisce la prima parte di Finché morte non sopraggiunga.

Scritto nel 1970, quando Oz era poco più che trentenne, Amore tardivo ha un doppio registro: è la scrittura di un giovane trentenne, che si trova a dover fare i conti con un cambio d’epoca che trasporta questa condizione nella mente di un settantenne che racconta se stesso come sopravvissuto. E allo stesso tempo questa condizione di età che lo colloca  alle soglie di una condizione ultima di vita, lo obbliga a trovare una funzione per sé in una realtà sociale, culturale che, avverte profondamente cambiata rispetto a quella della sua prima e seconda vita.Realtà  che sente ancora sua, e dunque non abbandona, che contesta, forse nel gergo caro ad Amos Oz, «tradisce» rispetto al pensiero condiviso , a quello che nel gergo politico dell’ebraico parlato in Israele  si chiama «rimanere all’interno del consensus».

Realtà che gli appare ora, anche per questo «in pericolo», perché affetta da amnesia, rispetto al proprio passato, e ebbra della sua nuova potenza e, dunque, per questo, dimentica delle proprie debolezze. Soprattutto distaccata dal suo mito delle origini. Società di cui avverte la fragilità e che ritiene, perciò, bisognosa di tutela. Non solo per proteggere se stessa, ma anche contro la se stessa di oggi.

E del resto è significativo che questo racconto in ebraico esca nel 1983, in un tempo, segnato dal conflitto interno per la guerra in Libano del giugno-settembre 1982, quando la realtà politica, sociale culturale, ma anche emozionale intorno gli sembra subire un’accelerazione tanto da sentire di vivere in un paese in cui le varie parti sociali, politiche, culturali non si parlano più tra loro.

Una condizione che in quei mesi sperimenterà andando in giro per il paese e che trova una sintesi in un libro che in Italia quando è arrivato (lo pubblica Marietti nel 1992 con una introduzione di Lucia Annunziata; il titolo è In terra di Israele) è stato accantonato, forse perché Amos Oz in quel momento era ancora “nessuno” per il lettore medio italiano. In ebraico quel libro si intitola Qui e là nella terra di Israele nell’autunno 1982, lo pubblica Am Oved nel maggio 1983, anticipato da una trasmissione televisiva nel marzo 1983, in un paese ancora scioccato dalla morte violenta di Emil Grunzweig, attivista di Peace Now, ucciso da un estremista di destra a Gerusalemme, il 10 febbraio 1983 durante una manifestazione in sostegno ai risultati della Commissione Kahan del governo israeliano che riteneva Ariel Sharon (allora ministro della difesa) “indirettamente responsabile” del massacro di Sabra e Shatila, sollecitando il suo licenziamento come ministro.

Stenteremo in queste pagine a riconoscere Tel Aviv, che oggi immaginiamo o percepiamo come realtà dell’hi-tech, realtà della connessione, strutturata intorno alla’industria 3.0 e in viaggio verso le sfide del lavoro 4.0., e che in queste pagine appare soprattutto nell’umidità, comunque immersa nella dimensione industriale 1.0. Anche per questo Amore tardivo può sembrare, a una prima lettura, un racconto che arriva fuori tempo massimo.

Non credo. Nonostante i suoi 48 anni, queste pagine parlano ancora alle sfide di oggi, tra la dimensione di voler trovare una continuità con il passato e la necessità di trovare qualcosa da fare, e da dire, per non essere fuori dal tempo-ora. In breve di pensarsi ancora parte di una società attiva, e di non essere per questo solo un residuo del tempo passato, sopravvissuto oltre il proprio tempo.

Può darsi che la condizione sia quella di qualcuno che grida cercando di evidenziare l’iceberg che nessuno vede a una nave in rotta verso lo scontro diretto. Una funzione e un vissuto da «uomo di mezzanotte» di Victor Serge, che prova a mettere in guardia mentre intorno tutti brindano al successo.

Resta lo stesso il fatto che quella condizione indica una scelta che è quella di non abbandonare, di non pensare – proprio perché s’intravede il disastro incombente, nella indifferenza intorno o peggio nell’entusiasmo incosciente – di salvarsi andandosene o, differentemente, dimettendosi. Ma è quella di guardare lontano,di trovare un punto in alto.

Meglio: di avere uno sguardo dall’alto, proprio per continuare ad avere un’attenzione alle cose, anche le più marginali.

È l’ultimo «messaggio in bottiglia» che ci è arrivato da Amos Oz. Forse non è stato pensato perché lo fosse. Ma è importante che lo sia. Significativamente la testimonianza di una lunga fedeltà a sé stesso.

 

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.