Letteratura

La lotta politica e televisiva in Italia secondo Guia Soncini

21 Settembre 2015

Risulta piuttosto ozioso il dibattito che si legge qua e là sulla nuova  tendenza del romanzo italiano con le diciture fresche di conio che lo accompagnano di “memoir”, “autofiction” o “personal essay”che dovrebbero sostituire o affiancare quella di “romanzo”. La questione, mi sembra, cade subito se ci si riferisce alla cosa, la narrazione, e non al nome che occasionalmente la designa. Infatti: un romanzo che già nel 1719 iniziava con “I was born in the year 1632, in the city of York, of a good family” cosa sarà mai stato se non un memoir o un’autofiction o le due cose assieme? La questione in Italia è poi tutta imported visto che da noi – causa assenza del genere al suo momento di nascita, il ‘700 –  non abbiamo neanche la doppia denominazione per le narrazioni lunghe consecutive: romance/novel del  mondo anglosassone e roman/récit della Francia.

A leggere un po’ di narratologia, si apprende ben presto che per distinguere una narrazione da una lirica o da un saggio (poi chiamala come vuoi: racconto, racconto lungo, romanzo breve, romanzo-romanzo, autofiction, memoir ecc.) bastano degli eventi e degli esistenti , delle storie e dei personaggi,  veri o finti che siano, assumendo  che il personaggio che dice “io” nelle “Confessioni” di Rousseau o nelle “Memorie” di Casanova è “romanzesco” tanto quanto Julien Sorel. E che, di contro, c’è tanto  “io” autentico di Stendhal nel “romanzesco” Julien. Tutto ciò a seconda che si scelga di romanzare l’io o di calarlo nel romanzo. E infine basta ricordare che  la narrazione è affare affatto semplice per chiudere ogni questione terminologica: non è che l’espansione di un verbo come suggeriva Genette: “La Marchesa uscì alle cinque” è già l’abbozzo di un romanzo.

Tutto questo per dirvi che “Qualunque cosa significhi amore” di Guia Soncini reca in copertina la bella dicitura di “romanzo”, fatto non tanto ovvio se si constata che “romanzo” non c’è scritto, solo per fare un esempio, sulla copertina del libro vincitore dello Strega di quest’anno “La ferocia” di Nicola Lagioia, che invero più di “Qualunque cosa significhi amore” adisce il genere con qualche pretesa in più, mentre questo della Soncini lascia supporre in più luoghi che si tratti di una storia cavata dalla propria biografia abilmente déguisée (contraffatta come si fa da sempre in ogni autentica narrazione).

Soncini_Qualunque-cosa-significhi-amore_recto

Avviciniamoci adesso al romanzo che abbiamo tra le mani. Gli eventi e gli esistenti sono presto detti. Attorno a un terzetto di personaggi, Vanni, Elsa e Fanny si agitano temi e mondi della nostra Italia di oggi. Elsa Tomei cura una trasmissione televisiva, Discanto, il cui pubblico «è fatto da dolenti elettrici di sinistra con pretese di erudizione». Nell’ideazione di questa figura si suppone qualche suggestione di Edmondo Berselli che sulla «professoressa democratica di sinistra» ci ha dato qualche precisazione antropologica. C’è poi Vanni Gualandi un editorialista del “Corriere” dall’infanzia difficile, proveniente da una cittadina del centro Italia e giunto adolescente a Milano che cura in ogni modo la dizione al fine di passare come nato nella Cerchia dei Navigli e farsi accettare dalla Milano che contra, quella «con i soldi antichi». Al culmine della vicenda pare presentarsi alle elezioni per il Partito democratico, se non ci fosse in agguato la cine-stampa di destra pronta a svelarne incresciosi segreti. Infine c’è Fanny Montestrutto, «Io so Fanny, piascère», romana, figlia di palazzinari che ricorda Elide Catenacci “che era scema ma non era affatto scema” del film di Scola “C’eravamo tanto amati” (altro nume tutelare di questa narrazione).

Tutto lo gliuommero della vicenda del terzetto  accumula materiale narrativo fino al climax che coincide con una cena e il flashback del Sanremo del 1981 in cui vince “Per Elisa” nome femminile che ha micidiali risonanze interiori nella vita di Elsa perché legato a proprie vicende familiari relative al “romanzo delle origini”  – secondo la formula della psicoanalista e letterata Marthe Robert-, ossia i pasticci sessuali paterni con figli nati fuori dal matrimonio cui si assegnano nomi con minime variazioni ma inesorabili destini psicoanalitici da curare con caterve di farmaci, tentativi di suicidio e ron ron per tutta la vita a carico degli altri membri familiari.

Gli individui reali e i loro fake – i personaggi di ogni romanzo – sono il precipitato di condizioni di classe (soldi, istruzione, gusti), origini geografiche (Roma o Milano), aspettative personali e mondi interiori scaturiti  dalla psiche più o meno devastata dai “romanzi familiari” di cui sopra, talché l’autore di un romanzo a stampa come questo che abbiamo tra le mani, che sappia tenere conto di tutte queste variabili – che si rivelano, come si sa, anche in un semplice gesto, in uno sguardo, in un solo lemma verbale – si sfida in una tessitura del reale estremamente complessa. La Soncini, a dire il vero, sa cogliere ogni minimo riflesso del mondo di fuori nel mondo di dentro dei protagonisti, direi che questo sia il suo “forte”. Anzi, da lettore totalmente disinteressato alle trame romanzesche – che però fanno “il” romanzo non solo per il lettore midcult ma in sé e per sé, giacché il genere, fin dalla sua fondazione,  è tale quando sa cogliere e raccogliere in una necessarissima “storia” gli sfilacciamenti e spappolamenti di un qualsiasi mondo sussunto nella pagina scritta – ad un certo punto ho “mollato” la storia e mi sono lasciato catturare solo dallo zampillare continuo di apoftegmi, sentenze, osservazioni puntute e aforismi generalizzanti che in genere sono godibili e degni di una nipotina di Musil (addirittura? Sì). In questi momenti Soncini svela talento da vendere. In lei la leggerezza canzonatoria – spesso esercitata contro la sinistra chic – funziona come la grata trasparente di un confessionale dietro la quale si nasconde una intelligenza vivisezionatrice e implacabile non sempre pronta a tutto perdonare perché tutto ha compreso.

Ma nella parte centrale il “romanzo” si sfilaccia, accumula personaggi, gira in tondo e sembra smarrirsi. La struttura privilegia la successione di scene e l’affastellarsi di dialoghi nella forma della rappresentazione più che in quella del racconto  con il tempo zero da copione teatrale o da sceneggiato televisivo, modalità redazionali che se non governati da un io redigente che sappia il fatto suo intorpidiscono la verve espositiva e in genere fanno perdere il “filo” a lettori come me. Soncini si concentra sull’elemento “discorso” più che sulla “storia”, ossia su tutti quegli elementi extra narrativi (tra i quali le osservazioni critiche, le massime)  necessarie alla comprensione di ogni intrigo ma che se spinti fino all’estremo ci danno il bravo scrittore di pagine – belle, bellissime, saettanti e saporite – ma non il romanziere, ossia il demiurgo che sa governare con maestria, in tutte le sue parti, quella forma che usualmente chiamiamo “romanzo”,  cioè  l’orchestrazione unitaria sapiente rattenuta in una struttura se non rigorosa almeno coesa e logica, con movimenti sinfonici mirabilmente strutturati. Quelle caratteristiche insomma  che sono necessarie all’opera destinata a farsi ricordare, perché del romanzo letto, diciamocelo, alla fine ci resta solo questo: un’unica immagine, la sua forma.

Il “discorso” del romanzo, ambientato nell’Italia dei giorni nostri non poteva che essere lo scontro tra destra e sinistra visti in quel luogo, la televisione, ove si è combattuta e si combatte tuttora la lotta politica, culturale ed estetica in Italia, e ove i registri estetici sono riflessi dell’ideologia di base, coerente e martellante nella destra e piuttosto confuse nella sinistra. “La sinistra ideologica che parrebbe odiare la sinistra culturale e viceversa nell’epoca della tv berlusconiana in cui lotta televisiva e lotta politica coincidono”, questo potrebbe essere il sottotitolo di questo romanzo. Nella convinzione, sposata da Soncini, che il valore della cultura si misura da quanto il pubblico è disposto a pagare per averti (trash compreso)  ci sarebbe una sinistra culturale che prende le distanze dal masscult, sapientemente governato si suppone dal berlusconismo. Soncini – e qui interviene il lettore dei suoi brani più leggeri in rete – sembrerebbe indulgere alle ragioni del mercato televisivo in cui se la merce si impone ha il suo valore in sé. La sinistra contraddittoria, sospesa tra mercato e snobismo, sembrerebbe non comprendere tutto ciò, il che è vero se si fa riferimento alla sinistra culturale alla Rai3 (che è quella in cui opera Elsa Tomei). Per conto mio osserverei che Gramsci quando studiava Carolina Invernizio lo faceva nell’intento di comprendere come funzionava il cervello della “casalinga di Voghera” non per sposare le sue estetiche da sottoportineria. Analogamente penso si comportino tutti coloro che cercano di studiare, spesso da sinistra, il popolaresco.

Inoltre l’autrice sembra, nella lotta che si combatte tutta dentro la borghesia, non simpatizzare  con la sinistra milanese che legge “Internazionale” con le sue dolenti storie di migranti e le sue sciure che invadono i marciapiedi con  le bici e che tratta con ipocriti “tu” i domestici. Borghesia che in genere legge e  che nella realtà – un po’meno in questo romanzo – si contrappone alla borghesia “del Cappuccio”  come la chiamava Scalfari e verso la quale l’autrice sembra abbia poco da eccepire, anche quando la sappiamo dotata di rombanti Suv, piuttosto ignorantella e incline a lamentarsi sulle pretese delle colf, e infine  crudelmente incurante dei “romanzi familiari” della servitù e dei figli che non vedono da lustri.

Ma tutto ciò, ossia la visione ideologica di uno scrittore – che a volte traspare dalle pagine per fatti concludenti e che a volte possiamo anche fraintendere – non deve riguardare l’analisi e la soppesazione critica del suo manufatto letterario. Sarebbe come voler sindacare il cristianesimo grevemente ortodosso  in Dostoevskij. L’ideologia, quella consapevole e quella inconsapevole, di uno scrittore, non ci dovrebbe mai interessare in se stessa ma solo per la comprensione della sua opera, per indicarci il suo “punto di vista” di irraggiamento. Ciò che conta è la resa artistica del suo mondo morale e intellettuale, che in questo romanzo ci viene data tra  momenti di fulgore espressivo e considerevoli indecisioni redazionali

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