Letteratura

La linea frantumata della poesia 

28 Gennaio 2021

Milo De Angelis (Milano, 1951), uno dei più noti e importanti poeti italiani, saggista, critico letterario e traduttore, conferma in questo ultimo volume mondadoriano le sue qualità di visionario investigatore dell’inconscio e di funambolico inventore di immagini, sapientemente sciolte in una versificazione che negli ultimi anni si è rivelata capace di duttili trasformazioni. La prima produzione di De Angelis (Somiglianze, 1976; Millimetri, 1983; Distante un padre, 1989), che l’aveva giustamente segnalato come dissacrante innovatore, si era infatti contraddistinta per una vena simbolista di difficile interpretazione, assolutamente estranea alla tradizione poetica italiana del dopoguerra, indifferente sia allo sperimentalismo sia all’impegno ideologico: la frammentarietà e la disarticolazione dei versi, la loro oscurità semantica, gli avevano valso l’accusa da parte di alcuni commentatori di elitarismo criptico e oracolare. Negli anni duemila, la scrittura deangelisiana ha assunto forme più distese e narrative, in cui i temi della sofferenza e della morte, pur illuminati da improvvise epifanie di esaltata adesione alla vita e da sfumature di tenerezza, sono diventati prevalenti e quasi ossessivi, in una perenne ambivalenza tra accettazione e rifiuto, rigore e delirio, incubo e liberazione.

In questo nuovo libro, Linea intera, linea spezzata (già dal cantabile novenario del titolo, con l’anafora allusiva a una regolarità drammaticamente infranta) il poeta si concede a una confidente apertura sentimentale, rinunciando sia ad arroccarsi in ermetismi difensivi, sia a trasgressive violazioni formali. Ne sono avvisaglia i versi dolcissimi (nella loro armoniosa musicalità e nel riverbero di una recuperata e fragile adolescenza) riportati sulla quarta di copertina: “E allora facciamo silenzio, mio piccolo amore, slacciamo / i sandali, togliamo il braccialetto di cuoio: / chiuderemo la porta e scenderemo, scenderemo / con i nostri pochissimi anni nell’occulto che ci chiama, / mentre il pavimento prende il colore della notte, / scenderemo noi due, scenderemo noi soli, perderemo / la vita”.

La Milano dell’infanzia e degli anni giovanili fa da sfondo brumoso alle prime due sezioni del volume, una Milano rivissuta nei suoi tram e negli ambienti frequentati allora (edifici scolastici, sale di biliardo e di bowling, lunapark, campetti sportivi, piscine, cinemini periferici), e oggi contemplata di notte (“la notte che ti scruta e ti attende” è momento privilegiato nella poetica dell’autore), in sguardi che abbracciano dall’alto elementi architettonici di contrasto, o girovagando “con i passi del fuggiasco” tra le risaie della Barona e i grattacieli, bar malfamati e chiese romaniche. Affiora la consapevolezza, in un terrore che spesso sfocia nell’incubo, dell’inessenzialità e trascurabilità delle vite comuni (“dell’infinita moltitudine in cui sei immerso anche tu”), a cui si può sfuggire solo aggrappandosi alla concretezza di un vissuto personale, privato, che sappia illudere della propria unicità.

Notte, paura, ricordo, silenzio, morte/morti sono i termini più ricorrenti nei versi di Linea intera, linea spezzata, e assediano il poeta in un delirio di visioni allucinatorie, di spettri o minacciose figure fiabesche (“senti ardere le sinapsi, entri nel dedalo / delle piccole convulsioni”), a cui nemmeno la dolcezza della memoria sembra offrire salvezza. Anche gli incontri con persone amate e perdute si risolvono spesso in rivisitazioni dolorose, angustiate da rimorsi, sensi di colpa, nostalgie feroci. Nella terza sezione, Dialoghi con le ore contate, il sentimento pressante della precarietà dell’esistenza, e il rimpianto di un passato irrecuperabile, spinge il poeta a un’angosciosa discesa nell’Ade dei trapassati (“e allora scendo, scendo di più, / scendo fino in fondo, scendo ancora”), per abbracciare tra tante altre ombre il fratello Puia, il primo allenatore di calcio, un riflessivo amico piemontese, il critico Alberico Sala, un compagno sessantottino della Statale, un’invincibile nuotatrice, spinto dal doveroso compito di ricordarli, questi fantasmi di un mitico passato, non solo mentalmente, ma scolpendoli sulla pagina, ripagati così di colpevoli disattenzioni lontane. La morte citata tanto spesso in varie declinazioni, incombe allegorica anche nelle clausole finali di molte composizioni, imponendo un tombale e disperato mutismo: “per l’ultima volta”, “iniziò la lunga notte silenziosa”, “tutto è silenzioso per sempre”, “sembrava un saluto ma è un addio”, “alla fine divampò la solitudine”.

In modo rassicurante e carezzevole, o all’opposto di fissazione ossessiva, imitando la ripetizione di formule e ritornelli infantili, l’uso della reiterazione di vocaboli o di intere frasi all’interno di una composizione – in anafore legate o distanziate –, è la figura retorica più ricorrente in De Angelis (non è di questa terra… non è di questa terra; devi restare, devi restare; scorderai, / scorderai; lui non è tornato, lui non è tornato; si aggirano… si aggirano; non c’è nessuno, non c’è nessuno non c’è nessuno; ecc.). Altrettanto frequente è il discorso diretto, a cercare interlocutori immediati, e coinvolti con un “tu” vocativo in un colloquio che in realtà cela la malinconica consapevolezza dell’inesorabile monologo.

L’ultimo capitolo della raccolta, Aurora con rasoio, si carica in maniera inattesa di una consistenza ideologica ed esistenziale assolutamente e finalmente consapevole, nel confessare la dipendenza dalla droga, la disarmonia con il mondo esterno vissuta con strazio e frustrazione, la ricorrente tentazione del suicidio, in chi si scopre “clown e martire di un dolore ereditato”, imputato al tribunale dei “giudici antichi” perché, incapace di adeguarsi, vedeva troppo, sentiva troppo, soffriva troppo. Di tutti gli esclusi dall’innocenza e dalla felicità, di tutti i rasoiati nelle loro aurore, si chiamino Milo Daniele Peppino Gianni, la poesia raccoglie la ribellione, la paura e l’affanno, reclamando il dovuto risarcimento.

 

MILO DE ANGELIS, LINEA INTERA, LINEA SPEZZATA – MONDADORI, MILANO 2021

p. 112

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