Letteratura
La letteratura si ridimensiona e diventa social, ma nessuno lo dice
Resta complicato, oggi, prendere sul serio la letteratura. Se ne produce una, per sommi capi, che non tinge, non colora, non lascia macchie e, quel che è peggio, non emette suoni, ossia è priva di un linguaggio musicale. Si presenta sbiadita, pallida, senza sangue, asfissiata da un biografismo scolaresco e un privatismo molesto. Come si può scrivere in maniera così urticante e non accorgersene? Romanzi di cui si abbandona la lettura sin dalle prime pagine, in seguito all’impatto convenzionale e fittizio con un lessico artificioso, zeppo di espressioni giovanilistiche, come se la contemporaneità del racconto fosse data dalle paroline sconce (giammai parolacce) in sequenza, e non dai temi trattati. La narrativa come produzione letteraria che quasi mai giunge a essere letteratura impera da anni e occupa il mercato editoriale in lungo e in largo, dando la sensazione che la maniera di intendere il romanzo e la letteratura in esso contenuta, comune a tanti lettori esigenti e data da un senso di ricerca profonda, tramite l’uso estetico della parola, sia stata spodestata da una semplificazione lessicale che va, sempre più, somigliando al linguaggio dei social. Quale prodigio: il romanzo, scritto come un lungo e faticosissimo post!
Ma, allora perché non si parla di una fenomenologia facebookiana che ha influenzato l’ispirazione degli scrittori e si inaugura ufficialmente, a rigor di logica, il “romanzo social” del momento, inerente alla forma e ai contenuti di un profilo da piattaforma? Sono ormai gli status dell’utenza social a dettare le storie da raccontare a un pubblico di lettori distratti, lasciando indifferente quello sempre più disincantato e deluso. E, dunque, seguendo il mainstream della comunicazione, giù con temi specifici, tanto per far vedere che si è anche scrittori impegnati. Ma, rispetto all’atteggiamento di Simone de Beauvoir e Sartre, le nostre scrittrici e i nostri scrittori non fanno che prodursi in una simulazione squalificante dell’impegno, una variante patetica di lotta sociale, una versione miserabile di resistenza intellettuale. I campioni di questo filone, di quelli, cioè, che si schierano dalla parte giusta, così come si fa sui social, senza apportare nessun contributo intellettuale alle cause che vanno sostenendo, sono noti. Farne i nomi sarebbe inelegante. Mi limito a dire che, recentemente, Walter Siti, in un’intervista rilasciata all’Huffington Post, il giornale su cui scrivevo in precedenza, ne ha elencato una bella schiera.
Eppure, la letteratura che scava e va a fondo, che prende per mano il lettore e lo conduce in un viaggio psicologico, è in grado di offrire sorprese anche a chi la produce, rivelandogli verità inaccessibili per altre vie. E, quando la struttura di un romanzo emerge elastica, retta da uno stile personale non discordante con i contenuti, che non si fossilizza nell’elemento monocromatico e monotono della narrazione, aprendosi all’ironia e alla leggiadria per dar modo alla complessità di non apparire pesante, vi si possono cogliere concezioni e teoremi che, addirittura, non erano nelle intenzioni dell’autore. Questo e altro succede, quando la letteratura indaga in profondità e non si ferma alla superficiale ambizione dello scrittore, che la raggiunge senza avere uno stile, oppure facendone semplicemente a meno. Cosa possiamo farci? Va di moda una letteratura al servizio dei social e delle sue piccole idee pianificate, e si bandisce, invece, quella che va alla ricerca di qualcosa di nuovo, che tenta di rieducare il pubblico alla lettura, restituendogli il gusto di emozionarlo, nel male e nel bene. Vi è in giro, anche da parte degli stessi addetti ai lavori, una considerazione tanto bassa della letteratura da risultare umiliata dagli stessi eventi che le girano intorno, compresi i premi di grande portata. Così, per dire.
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