Letteratura
La generazione del deserto: quando raccontare il passato è una forma di libertà
Qual è il rapporto che la memoria di ciò che non abbiamo vissuto, ma in cui siamo radicati, ha con noi? E soprattutto qual è il rapporto che intrattiene con noi l’oblio, o anche soltanto il silenzio steso su quel passato che indirettamente ci appartiene?
Questo indaga Lia Tagliacozzo nel suo libro pubblicato per Manni nell’autunno 2020. La miccia che fa scattare racconto, ricerca e riflessione sta nel disprezzo con cui l’autrice osserva una generazione di “giovani scrittori ebrei” che scrive e presenta libri “da migliaia di copie”, e si ammanta del passato della Shoà; nipoti di sopravvissuti che hanno ricevuto racconti già masticati e ora portano in giro l’Olocausto per avere qualcosa di cui parlare e un’identità attraverso cui presentarsi.
È proprio allora che Lia Tagliacozzo trova la necessità di indagare lei stessa, ma lentamente, delicatamente e a fondo, tutto ciò che i suoi genitori hanno sempre preferito omettere. Chi ha ereditato quel passato si confronta con una lotta interiore, attraversato da una “disperazione illegittima, disperazione di cattivo gusto”, incubi presi in prestito dai testimoni reali. Finché il non detto, l’allusione lasciata cadere, il dato per scontato, rendono opaco il passato, di quel passato e di quegli incubi si resta schiavi. Ma ci vuole tempo, quarant’anni di deserto, prima di lasciarsi alle spalle “l’Egitto geografico” e giungere alla Terra Promessa: “per comprendere la nostra attitudine alla salvezza, per scandagliare nelle profondità dell’anima e tentare di distinguere i nostri incubi da quelli degli altri (…). Per inventare una fiducia nostra e non solo sull’urto altrui per guardare al futuro”.
Così ricostruisce, come rincollando fogli strappati in precedenza, la storia di sua madre e di suo padre. Lei, che era arrivata in un campo d’internamento in Svizzera dopo essersi rifugiata in un casolare in campagna e da lì essere fuggita attraverso le Alpi. Lui, che si era salvato miracolosamente da una retata ed era rimasto nascosto per tutti i mesi dell’occupazione in un convento.
Indagando si scoprono nomi di sorelle scomparse e cancellate se non dalla memoria almeno dalla parola: momenti e persone mai verbalizzati, mai nominati emergono faticosamente e vanno a prendere posto in un puzzle a cui mancheranno sempre dei pezzi. La tentazione di accanirsi nel cercare di estrarre ogni dettaglio da quel pozzo senza fondo si trasforma lentamente, fino ad accettare che sia impossibile e che in realtà non ce ne sia bisogno.
Alcuni dettagli e ricordi si saranno persi, ma la storia è finalmente raccontata, è finalmente lì, per essere a disposizione di tutti e perché ognuno, ogni figlio e nipote, possa scegliere che rapporto avere con essa, senza appropriarsene, senza esserne schiacciato, distinguendo “i propri incubi da quelli degli altri”, trovando la giusta distanza. È per conquistare questa libertà rispetto al passato che è necessario raccontarlo.
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