Letteratura
La fornace del paganesimo antico
una riflessione su Paola Mastrocola, “Il dio del fuoco” , Einaudi, Torino 2024
La fornace del paganesimo antico è sempre accesa e gli dei sono al lavoro. Paola Mastrocola lo sa bene congegnando un romanzo ove non v’è spazio per l’errore o per l’invenzione arbitraria come la stessa autrice racconta nella nota finale del suo volume.
Ne “Il dio del fuoco” opera la costellazione mitologica di Efesto oltre le maglie delle fonti letterarie e iconografiche.
Efesto è narrato dalla sua ancella Fiamma, immaginata da Mastrocola e dalle madri, Teti e Eurinome, le dee che lo accolsero nel fondo del mare dopo la caduta dall’Olimpo provocata da Era.
Alto e basso, cima e fondo si inanellano nel precipitare del dio che si protrae per un tempo infinito.
Il grande fabbro fanciullo scopre il fuoco nel fondo del mare, in seguito apre fucine nei recessi della terra e ne emergono tesori.
Efesto, generato per partenogenesi da Era senza un padre, senza il riconoscimento materno, viene scelto da Zeus come figlio con un atto di forza che non lo strappa alla sua genealogia monca, non gli restituisce la madre e l’origine.
La zoppia è tuttavia il segno dell’autogenerazione dalla fine: Cadendo Efesto rinasce, ruzzolando si determina come dio creatore. Il fabbro divino abbraccia il tutto nella sua perfezione storta e gli dà forma dal suo utero di conflagrazione creatrice. Forgia Pandora per ordine di Zeus, costruisce ogni sorta di artificio suggellando il patto dei quattro elementi con il fuoco.
La vampa è la sua matrice, l’amicizia con Prometeo lo conferma. Diversamente da questo però, Efesto non guarda ai bisogni degli uomini, non fonda civiltà, bensì fabbrica macchine, troni, spille incantevoli, automi animati come Fiamma dalle sue fucine ctonie. L’impresso del precipitare di Efesto opera un rovesciamento genealogico che gli fa scegliere la morte come origine; Efesto non vive nell’Olimpo, viceversa, predilige le viscere della terra, i vulcani e gli abissi come lo zio Ade.
Nei “Dialoghi con Leucò” Pavese fa dire a Demetra: Per questo ti dico che ci hanno trovati nel sangue. Se per loro la morte è la fine e il principio, dovevano ucciderci per vederci rinascere. Mi sono interrogata su questa frase per più di vent’anni. Adesso la comprendo un poco grazie al libro di Mastrocola.
La vita del “dio del fuoco” è stata in pericolo tante volte: Quando è finito sul fondo del mare davanti a Teti dopo essere precipitato dall’Olimpo per mano di Era e per un momento non ha respirato; nel momento in cui ha portato Prometeo sulla rupe e lo ha incatenato soffrendo con lui; nell’istante in cui ha liberato la madre dal suo trono dorato congegnato come trappola senza averla convinta ad amarlo, subendo in tal modo la seconda negazione della sua nascita; infine quando Achille, figlio di Teti, muore in battaglia, nonostante lo scudo invincibile che il dio gli aveva fabbricato.
A Efesto tocca sempre ricercare il senso perduto del suo vivere pericoloso in un’osmosi tra oscurità e luce; per un dio dopotutto non fa differenza finire o iniziare o poco vale distinguere il fuoco dal sangue, la fine eroica dalla punizione.
Nel sigillo della sua storpiatura ci sono tutte le rovine buie e tutti gli inizi del mondo, per sempre.
Anche se l’eternità non risolve la pena, l’errore, il dolore, le riavvolge in un nastro variopinto, un bagliore. Alla fine del volume di Mastrocola, Efesto dichiara alla sua Fiamma: “Sparire fa parte dell’amore” mentre semicieco non sa se l’amata si trova ancora accanto a lui nella fucina mentre le parla. Forse lei si è dissolta nel fuoco della fornace per cominciare una nuova ecpirosi, distillarsi ancora come anima.
Lo intuiamo. Non importa: Gli dei torneranno. Il fuoco li brucerà decantando sangue in respiro. L’eterna sparizione è la forma dell’amore degli dei per noi. È in gioco la ricreazione del mondo ed Efesto continua a battere sull’oro.
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