Letteratura
Le bufale della figlia di Galileo
Dava Sobel è una bravissima divulgatrice scientifica, conosciuta dai più per il capolavoro e best seller Longitudine, la storia dell’orologiaio Harrison e della sua tenacia e abilità nel risolvere uno dei problemi scientifici più famosi di sempre: quello appunto di misurare correttamente la longitudine per conoscere la posizione esatta di una nave in mezzo all’oceano.
C’è un altro libro, però, della scrittrice, che è un piccolo gioiello e meriterebbe un’attenta lettura in molte scuole italiane: La figlia di Galileo, un libricino di fine ‘900, che racconta la storia di un grande italiano attraverso una prospettiva assolutamente originale.
Di Galileo hanno scritto e parlato in tanti, infatti, trasformando la figura dello scienziato nell’emblema del conflitto tra verità scientifica e religiosa: nessuno, però, ha raccontato la sua storia da una posizione privilegiata ed intima, forse in grado più di tutte di metterne in risalto l’umanità e la tragedia insieme.
Questo saggio infatti ripercorre la carriera dello scienziato attraverso gli occhi e le parole della figlia, Suor Maria Celeste, affezionatissima al padre fino alla fine dei suoi giorni.
È una storia dolce, quella che emerge tra queste pagine: più di cento lettere, scritte dalla figlia al padre, da cui filtrano come in un’eco lontana le vicissitudini di Galileo, perché le parole del matematico, invece, e le sue lettere sono andate perse, probabilmente distrutte dalla madre badessa del convento di Suor Maria. Non era appropriato, sembra, conservare all’interno del monastero documenti autografi di un personaggio tanto scomodo, ancora in odore di eresia e perseguitato dagli strali del Sant’Uffizio.
Galileo amò molto la sua primogenita, che finì in convento perché il padre, mentre stava a Padova, aveva una relazione con una donna della Serenissima, Marina Gamba, dalla quale ebbe tre figli senza mai sposarla. Virginia Galilei, nata dunque ‘da fornicazione’, come recita l’atto di nascita, non poteva che essere destinata a una vita monastica.
Le lettere di suor Maria Celeste (già nel nome scelto da monaca c’è quella passione per il cielo che rese il padre immortale) raccontano la storia di Galileo, dagli inizi alla fama folgorante che, grazie all’invenzione del cannocchiale, proiettarono lo scienziato nell’empireo dell’Italia del Seicento.
E proseguono amorevoli anche e soprattutto nei momenti di sconforto, durante il terribile processo e dopo, negli anni della prigione, quando davvero Galileo era solo e circondato da una muta disperazione.
È un’Italietta non troppo diversa da oggi, quella che viene fuori dal libro della Sobel: l’invidia per un uomo di successo, l’inerzia culturale di una classe dominante che resiste al cambiamento, anche di fronte a un’evidenza empirica schiacciante. Una pletora di omini che, attorno al Sole del pontefice, descrivono orbite eterne di cortigianeria, mentre un unico coraggioso prova a compiere la sua rivoluzione, forse ancora più difficile di quella copernicana, cercando con tutte le sue energie di difendere la verità scientifica e il fatto che non tutto ruota per forza intorno a Urbano VIII.
Galileo appare come un uomo intelligentissimo, ironico e pungente, appassionato nel difendere le sue idee e nello sbugiardare gli altri, sprovvisto della benché minima idea di opportunismo.
Non era un paraculo e, forse, non sapeva neppure come si fa ad esserlo: scrive il figlio Vincenzo, anni dopo la morte del padre, che Galileo era incapace di dire bugie, forse perché fiducioso tenacemente nella certezza delle verità matematiche.
Così scorrono le pagine e anche il celebre processo, attraverso il resoconto dei tanti protagonisti, sembra più il risultato del rancore di un papa davvero permaloso, Urbano VIII appunto, un tempo ammiratore di Galileo e, successivamente, suo acerrimo nemico, forse perché lo scienziato aveva osato, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, mettere in bocca a Simplicio (nomen omen) le parole del papa sull’interpretazione delle maree.
Urbano si accanisce su un Galileo quasi settantenne: lo costringe a presentarsi a Roma con un viaggio di due settimane attraverso un’Italia dilaniata dalla peste.
Lo condanna alla prigionia perpetua, di fatto, anche nell’esilio tutt’altro che dorato di Arcetri: Galileo non può insegnare, non può vedere nessuno per parlare di scienza; l’ordine è quello di non stampare più le sue opere perché si perdano presto nell’oblio del tempo.
E allora fa davvero tenerezza leggere le lettere di Suor Maria Celeste, la figlia devota che, mentre il padre è sottoposto alla più atroce delle umiliazioni, lo consola e gli scrive continuamente parole semplici e gentili, in cui racconta che il raccolto dei fagioli è andato bene, che gli aranci hanno fatto pochi fiori, fino a fare ridere Galileo con un delizioso gioco di parole sulle mozzarelle:
“Signor padre, vi fo sapere ch’io sono una Bufola assai maggior di quelle che sono in coteste maremme, perché vedendo che Vostra Signoria mi scrive di mandar sette uova di cotesto animale, mi credeva che veramente fossino uova, e facevo disegno di far una grossa frittata persuadendo che fussino grandissime, e ne avevo fatta allegrezza con suor Luisa, la quale non ha avuto poco da ridere della mia goffaggine”.
C’è un non detto dolce in questo carteggio dimezzato e, quasi, si intravede il rossore di una figlia che immagina la depressione del padre e lo incoraggia a non mollare.
Un padre cui il destino riserva la più crudele delle ironie: l’uomo, infatti, che, con il cannocchiale, disvela il cielo e lo rende finalmente esplorabile agli uomini, allargandone per sempre gli orizzonti, è condannato negli ultimi anni di vita alla cecità quasi totale.
E, ancora peggio, proprio quando gli viene concesso di trasferirsi da Siena, dov’era ospite forzato dell’arcivescovo Piccolomini, ad Arcetri per riabbracciare, dopo tante lettere scritte, la figlia Virginia, lei muore per una malattia improvvisa.
Ma è qui che si apprezza ancora di più la grandezza di Galileo: un uomo sputtanato, ridotto al silenzio, colpito dalla sorte avversa e che assiste alla morte della giovane figlia, non si siede e non si lascia andare.
Non molla, proprio come voleva Virginia.
Passa gli ultimi anni, nella solitudine forzata del Gioiello, a scrivere un libro, il Dialogo sopra le due nuove scienze, che Einstein definisce come il vero contributo di Galileo alla nascita della fisica moderna.
È un libro freschissimo e pieno di spunti, con ancora Simplicio, Salviati e Sagredo a discutere instancabili di scienza nella cornice dell’Arsenale veneziano, luogo simbolo dell’innovazione nel Belpaese del diciassettesimo secolo.
Con l’occhio vigile del papa e dell’Inquisizione, questo libro non s’ha da stampare. E allora, tra mille sotterfugi e intrighi, il manoscritto a dispense esce dai confini e, grazie a quella che poi diventò la casa editrice Elsevier, viene pubblicato a Leida andando a ruba in poche settimane.
A prendere le difese di Galileo, in Europa, sono Cartesio, Fermat, Gassendi: addirittura, lo vengono a trovare nella sua prigione domiciliare personaggi del calibro di Hobbes e del poeta Milton.
Galileo muore, circondato dall’affetto di Viviani e Torricelli, due allievi prediletti che lo descrivono ancora attivo, curioso e lucido sul letto di morte.
È un bel modo di andarsene.
La reazione, invece, in Italia non è delle più degne: la comunità scientifica è tutta intenta a girare attorno al proprio asse, mentre papa Urbano VIII, in un rancore inestinguibile, vieta che lo scienziato sia sepolto insieme ai familiari e che venga fatto un funerale solenne con tanto di elogio funebre.
Il pontefice, mi sia scusato l’uso dell’avverbio ‘finalmente’, muore nel 1644.
Riportano le cronache dell’epoca che Sua Santità spirò alle undici del mattino e, non era ancora mezzogiorno, una statua che lo ritraeva fu distrutta dalla folla inferocita.
Il nome di Galileo, dopo tanti secoli, brilla come una stella fulgida nel cielo della scienza. E un’ultima sorpresa ha colpito chi, nel 1737, si occupò di trasferire la salma del grande scienziato dalla sepoltura originale a Santa Croce.
Sotto il feretro di Galileo, infatti, fu scoperta una seconda bara: dentro riposa Suor Maria Celeste. Senza nessuna iscrizione ufficiale, dietro le quinte, con quel non detto che , in un gesto di perfezione assoluta, è bello come un cielo stellato.
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