Letteratura
La famiglia e il diverso: L’Alieno. Intervista a Massimo Donati
Il delicato rapporto figli genitori, il senso di appartenenza a una comunità – familiare e sociale – la diffidenza data dalla diversità, attraverso la quale ci definiamo come individui, ma con la quale costruiamo anche muri fra noi e l’altro, sono alcuni dei temi al centro de L’Alieno, spettacolo scritto e diretto da Massimo Donati, che debutterà – nel contesto del XIX Festival di drammaturgia Tramedautoreautore – al Piccolo Teatro Grassi domenica 15 settembre. Il testo, selezionato e vincitore di una menzione speciale nell’ambito del bando NdN Network Drammaturgia Nuova 2018-2019, racconta attraverso il personaggio della protagonista – Anna, interpretata da Eva Martucci – la difficile condizione di una madre che, affrontando la diversità del figlio, mette in discussione tutto il suo percorso genitoriale, di compagna e di persona.
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Abbiamo parlato di quest’opera con il regista Massimo Donati, partendo dalla domanda classica: come nasce l’idea di quest’opera?
A posteriori non so mai ricostruire esattamente il momento e le circostanze in cui è nata un’idea per un testo. Nel mio primo romanzo, tutto era partito da un’immagine in un sogno. In altri casi sono notizie di cronaca, o suggestioni emerse in una conversazione. L’ALIENO, come testo per uno spettacolo, è nato da una semplice constatazione: si può rifiutare completamente un figlio. Non è una domanda, è un semplice dato di fatto. E tutto quello che una madre vive quando è incinta, e poi in seguito, quando un bambino cresce – non dormire, soffrire, avere emozioni contrastanti e prive di controllo – può essere all’origine di traumi, rancori, disamoramenti nei confronti di un figlio, tanto desiderato. In altre parole questo stato apparentemente così naturale, se portato alle estreme conseguenze, poteva essere la condizione di base per la generazione di una diversità irriducibile, lancinante, distruttiva, proprio perché nata dall’amore, nata da noi stessi. Come autore mi sforzo di cercare storie e vicende umane che mi consentano di sbirciare sotto il tappeto delle emozioni e dei sentimenti più immediati, per arrivare a un nucleo di conflitti e di compromessi che sono sfumature nascoste di ciò che proviamo, di ciò che viviamo, magari senza mai confessarlo.
La società di oggi ci spinge, da una parte, a cercare di emergere, di spiccare e distinguerci dalla “massa”, ma contemporaneamente, dettando le regole anche della diversità (in quelli che restano di fondo percorsi di omologazione), definisce anche il profilo di un diverso “positivo” in contrasto con il diverso marginale. Chi sono oggi i marginali e come mai, a suo parere, la società non riesce a valorizzare davvero, come spesso si sostiene a parole, la diversità?
La nostra (intendo l’unica che conosco davvero, cioè quella liberale e occidentale) non è una società capace di valorizzare la diversità. È un mantra che ci ripetiamo, ed è bene ripeterlo, sarebbe un disastro il contrario, ma come valorizzare la diversità, o anche solo come adattarci ad essa – quella vera, non quella di comodo – e sopportarla davvero, non abbiamo imparato a farlo. Perché la diversità è conflitto, non è solo molteplicità che ci piace. Forse impareremo, non so. La diversità di cui parla il mio spettacolo non è la diversità “simpatica”, la diversità che è semplice variazione sul tema. È una diversità che non ammette punti di mediazione. E allora nasce spontanea la domanda: come si fa? Come si affronta? La marginalità è il volto concreto di una diversità che non si scioglie. Finisce nella marginalità chiunque non risponda a determinati requisiti, normalmente di utilità in un senso molto ampio. Una qualche utilità produttiva, un’utilità relazionale e affettiva, un’utilità storica o strumentale. Ed è per questo che la marginalità cresce: perché letteralmente non sappiamo cosa farcene di questo vuoto, ci spaventa, non sappiamo che posto dargli. Ma cresce anche perché non ci siamo dati gli strumenti nemmeno a livello personale e umano per rompere questo automatismo. Riusciamo a rientrare in gioco solo quando la diversità è mediabile, addomesticabile, governabile. Ma forse è un carattere della condizione umana, non aggirabile.
La disabilità è uno dei temi centrali di quest’opera. Il contesto in cui viviamo è, in questo senso, a due facce: da una parte campagne, progetti, percorsi per l’educazione al rispetto, la piena fruibilità degli spazi, l’integrazione, dall’altra famiglie lasciate sole ad affrontare percorsi spesso molto difficili e un mondo “performante” che isola chi non sta al passo. In questo caso l’isolamento è triplice: quello del diverso nella società, quello di chi protegge il diverso (fra le mura di casa), quello fra i singoli individui nei loro mondi e percorsi. Cosa può generare, a suo parere, questa “schizofrenia” sociale?
La disabilità che ho immaginato è quasi metafisica. Per questo inafferrabile. Ma l’intenzione era di astrarre l’idea di disabilità, e in questo modo renderla assoluta, capace di rappresentare tutte le disabilità, anche quella all’amare, che forse è la più terribile, se guardiamo la vicenda del mio dramma al contrario. Nei confronti della disabilità – sicuramente quella mentale più di quella fisica – la nostra società (e qui intendo in particolare quella italiana) vive di ipocrisie, ma anche di conquiste molto graduali. Siamo tutti ben disposti a sostenere le famiglie e l’integrazione, se è lo Stato che lo deve fare per noi, ma non vedo nel cittadino comune questa stessa propensione laddove divenga un impegno personale, consumo del proprio tempo, delle proprie risorse. Non è una priorità. Per fortuna esistono persone e organizzazioni che sentono queste forme di isolamento come forme di ingiustizia, e le mettono al centro del proprio impegno quotidiano, non va dimenticato. Ma per il resto è quello che dicevo prima riguardo alle diversità irriducibili: l’irriducibilità spesso la decidiamo noi, e la disabilità può esserlo, anche quando non è particolarmente grave.
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Tutto parte dalla famiglia, il nostro primo modello di riferimento. In quest’opera troviamo, all’inizio, una famiglia di stampo tradizionale, per certi versi “anomala” rispetto al contemporaneo. Anche per loro però esistono precise convenzioni che vanno rispettate. In cosa quindi tradizione e contemporaneità differiscono in questo senso?
Non differiscono. Nel senso che è implicito nell’idea di modello famigliare la propria perpetuazione ed esaltazione, come unico modello, come giusto modello del vivere, da comunicare ai propri figli e poi nipoti. E questa è una trappola inevitabile. La famiglia che ho disegnato è di stampo tradizionale per alcuni aspetti, non lo è per altri. Anzi è molto moderna nei propri consumi, in certe scelte (partorire a casa propria, per esempio) con la precisa intenzione di non dare un’etichetta e quindi troppi alibi al pubblico. Anna e Matteo potremmo essere noi, tolti i dettagli. E la cosa credo più disturbante di tutte è che lo sono mentre cercano una propria strada, una propria felicità, senza essere la brutta copia dei propri genitori.
La comunità gioca un ruolo centrale nel definire i criteri della “diversità”. In che modo un rito collettivo, come quello del teatro, può influire sulla coscienza e la percezione che abbiamo di questi schemi nei quali viviamo immersi fin dalla prima infanzia?
È certamente la comunità, anche quella famigliare, a stabilire ciò che riconosce come diverso. Come altro da sé. Io credo che il teatro sia un rito collettivo che parla il linguaggio delle emozioni creando mondi, ed è solo per questo che può porre domande al nostro sentire profondo, invece che soltanto alle nostre teste. Ha la capacità di far vibrare la forza e la necessità di una domanda. Può essere un’onda che si propaga, o solo un cerino accesso messo in mano a qualcuno. È comunque già qualcosa. Ma non credo nelle opere teatrali funzionali a un messaggio. Ogni opera teatrale ha in sé, nella propria esistenza stessa, il proprio motivo. Solo così può rimanere lì, essere una cosa nuova che va nel mondo col proprio carico di sfumature e livelli, e possibili interpretazioni, e nutrirci quando la incontriamo, quando la viviamo.
Il testo parla anche di solitudine. Quella del sacrificio per l’altro, ma anche quella dell’inseguimento di un proprio “piano” e di un proprio ideale, a costo di mettere in discussione le relazioni e i legami forti. Il “valore” del sacrificio per la famiglia è da sempre alla base della formazione femminile (e parallelamente della contestazione da parte dei movimenti di emancipazione). Anna in questo senso è un personaggio sfuggente: portavoce di questi valori vive una vita messa in crisi dalle conseguenze estreme delle sue scelte. Può parlarcene…
Era molto importante in questa vicenda non inquadrare Anna, la voce narrante, in un cliché. L’appartenenza a una categoria molto definita, riconoscibile, è un modo facile per semplificare la vita allo spettatore. Sicuramente Anna ha un’idea tradizionale della famiglia e del ruolo della donna, ma lo interpreta con una certa originalità, perché è una diversa, una che nuota contro corrente in una società che tende a premiare la molteplicità di esperienze, le famiglie piccole e agili. Lo dichiara fin dall’inizio. Non si accontenta e cerca di realizzare il proprio sogno di felicità. Che è solo in apparenza all’origine della cascata di eventi che determinano la crisi. La verità è che Anna è dilaniata dagli opposti che albergano nel suo io profondo: sicuramente un’aspirazione alla pace del nido costruito e voluto, e contemporaneamente il turbamento che genera in noi il diverso, che è vita e fame di vivere pienamente. È per questo che arriva Erri. Erri incarna il conflitto. Il sogno e l’incubo insieme.
Milano, Piccolo Teatro Grassi
Domenica 15 settembre ore 20.30 – Tramedautore XIX Festival Internazionale delle Drammaturgie
ideato e organizzato da Outis – Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea
L’ALIENO – Uno spettacolo di Massimo Donati
Testo e regia Massimo Donati Con Eva Martucci
Scenografia – Agnese Bellato
Costumi – Vittoria Papaleo
Disegno luci – Monica Gorla
Musiche originali e sound design – Rolando Marchesini
Supervisione della regia – Karina Arutyunyan
Assistente alla regia -Lucia Messina
Fonico di scena – Gionata Bettini
Produzione Teatri Reagenti in coproduzione con NdN Network
Drammaturgia Nuova 2018-2019
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Ph. Manuela Pellegrini
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