Letteratura
La Douce France degli scrittori siciliani
In questi giorni di passione per l’amata “douce France” vengono in soccorso le letture di una vita che in quella Terra hanno trovato succhi e nutrimenti spirituali senza pari. «La vraie patrie est celle où l’on rencontre le plus de gens qui vous ressemblent», diceva Stendhal in Roma, Napoli e Firenze riferendosi all’Italia, sua «patrie» d’elezione. A Stendhal era venuta a mancare la mamma che lo aveva instradato all’amore per il nostro Paese cantandogli arie d’opera nella nostra lingua, lasciandolo orfano di nove anni. Michel Crouzet, il suo maggior biografo ha scritto che l’Italia era diventata piuttosto, nella sua coscienza desiderante, la sua «matrie», il luogo in cui rintracciare, anche nelle numerose donne anelate o amate, il ricordo di quella mamma “italianisante”.
Per analoghe e corrispettive ragioni a molti intellettuali siciliani la Francia è parsa la “patrie” o la “matrie” ideale perché credettero di incontrare in essa «beacoup de gens» che più somigliava loro. C’è infatti un legame speciale che collega gli intellettuali siciliani alla Francia. Sciascia prendeva il vagone-letto per la Francia che partiva diretto, senza cambi, dalla stazione di Palermo, per andarsi a rifornire di libri e di “articles de Paris” tutte le volte che poteva. Uno di questi fu il libro di Hélène Tuzet Viaggiatori stranieri in Sicilia nel XVIII secolo che fece tradurre.
Lo scrittore di Racalmuto scrive delle cose molto acute ne La Sicilia come metafora – una lunga intervista rilasciata alla giornalista francese Marcelle Padovani – su questo speciale rapporto che lega l’Isola alla Francia dai tempi dei Vespri quanto meno. Dice Sciascia in questo libro che «nell’epoca dell’Illuminismo […] si vedono i letterati prendere a modello i razionalisti francesi. Se si consultano i registri di dogana e di polizia, si costata allora che l’importazione di libri francesi è sbalorditiva: Rousseau, Voltaire, L’Encyclopédie, Montesquieu […] Stendhal dirà in seguito che i libri in francese vendevano poco in Italia, tranne che in Sicilia, dove ogni libro toccava il centinaio di copie». Prosegue, Sciascia, elencando tutti gli intellettuali siciliani, grandi e piccoli, che prendono l’abitudine di frequentare Parigi e la Francia: tra gli altri Michele Palmieri di Miccicché «autore di due volumi di memorie stampati a Parigi e che furono letti da Stendhal e da Alexandre Dumas. Peraltro non dobbiamo scordare che alcuni episodi stendhaliani provengono dritti dritti da Palmieri». È a Parigi che lo storico Michele Amari si procura tutto il materiale necessario per redigere una delle opere fondamentali della storiografia romantica La storia dei musulmani di Sicilia. La tradizione continua con Navarro della Miraglia che si reca a Parigi dopo il 1860 e vi scrive un libro in francese Ces messieurs et ces dames. Ma, cosa più preziosa, pare che sia stato lo stesso Miraglia a introdurre il “verismo” francese in Sicilia istituendo un legame tra gli scrittori isolani Capuana, Verga, De Roberto con la corrente letteraria del “naturalismo” allora in voga nell’Esagono.
Se andate a visitare la casa di Verga in via sant’Anna a Catania e date una sbirciatina ai dorsi dei volumi della sua libreria vi troverete libri francesi in grande quantità. Quando Paul Bourget venne a Catania, se ricordo bene, incontrò i tre numi Verga, Capuana e De Roberto, francesizzanti tutti e tre, e che in quegli anni stavano rifondando il romanzo italiano (vedi il bel volume di Carlo Alberto Madrignani Effetto Sicilia, Quodlibet Macerata, 2007). Tomasi di Lampedusa, che conosceva altrettanto bene la letteratura inglese, ha scritto un delizioso Invito alle lettere francesi del Cinquecento, per non dire di Brancati che ad Armance di Stendhal ruba l’ispirazione per il suo Bell’Antonio e di cui basta aprire un volume per imbattersi in Chateaubriand, in Flaubert a ogni piè sospinto. Per finire con Antonio Aniante, un catanese di Viagrande che visse quasi tutta la sua vita a Parigi e che da gallerista lanciò nientemeno che De Chirico come racconta in Ricordi di un giovane troppo presto invecchiatosi senza aver cura di tenere per sé nemmeno un suo quadro dannandosi in seguito per questa imperdonabile sventatezza.
E dove vanno i sicilianuzzi emigranti nel film di Pietro Germi Il cammino della speranza ? In Francia ovviamente. Per venire alla cronaca d’oggi, se chiedete al catanese Giampiero Mughini chi fuor li maggior tui (prima che si bevesse il cervello con i calciatori, aborrrrro!!!) vi risponderà con una sfilza di francesi da Larochelle a Brasillach coi quali peraltro dialoga nei suoi volumi. Sfugge a questa filiera Pirandello, che fu deferito al Consiglio di disciplina ed espulso dall’Università di Roma per aver solidarizzato con un prete suo compagno di banco che aveva ridacchiato alla erronea traduzione di Plauto del prof. Occioni, per sua disgrazia Rettore Magnifico dell’Università, e finire quindi a Bonn, in Germania, dove, forse, apprende la sua “mezza filosofia” (sulla scorta della Lebensphilosophie allora in voga in Germania?) della forma e della vita, dell’essere per sé e dell’essere per gli altri, della verità e della finzione, del teatro nella vita e della vita nel teatro, della maschera e il volto, dell’io del non-io per dirla con Brancati.
Anch’io da semplice lettore sono stato soggiogato dalle lettere francesi. Ricordo che ai tempi della mia formazione avevamo nella mia città natale di Catania il “Centre culturel français” (in una traversa dietro Piazza Università) ancora in attività ma chiuso in seguito in tempi di revisione di costi e di un ritracciamento della grandeur dell’Esagono. Quando andai a Milano, poco più che ventenne, fu per me perciò naturale frequentare il “Centre” di via Bigli, a due passi dalla casa di Montale, allora ivi funzionante, e in seguito trasferitosi in corso Magenta. Al Centre milanese lessi il romanzo Aden Arabie di Paul Nizan di cui un passo mi è affiorato a galla davanti allo sfacelo di questi giorni: « Chacun trouve au fond de ses réveils tous les désordres du temps je ne sais combien de fois réduits à la médiocre échelle d’une inquiétude privée ». Ciascuno trova al termine dei propri risvegli tutto il disordine del mondo ridotto alla miserabile scala di una inquietudine privata. La “scala” in cui i tormenti del mondo si riducono è miserabile perché certamente miserabili siamo noi, ma anche perché miserabili sono in sé e per sé i désordres du temps.
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