Letteratura
LA DINAMITE DI COSIMO ARGENTINA
Leggete centinaia di libri all’anno e non lo conoscete? Siamo qui per questo. Scoprirete una perla tarantino-brianzola. Zero narrativa sdolcinata, Argentina è dinamite: ha parlato del maestro Cèline, delle ciaffate come granate del padre, della sofferenza e della scrittura come esercizio di onestà. Parole: Lorenzo Monfredi. Foto: Matteo Pem Pem Cavadini.
È difficile definire ciò che mi danno i libri di Cosimo Argentina. Ci sono cresciuto tra le sue righe. I vari debosciati che appaiono nelle pagine li conosco meglio di certi parenti con cui non mi caco di striscio da anni, se non alle feste comandate. Argentina… il nome di una nazione che ha dato i natali al Diego. E anche il cognome d’uno scrittore poderoso, letale, un proiettile esplosivo. Cosimo Argentina è un tarantino classe ’63 che vive in Brianza dal 1990. Scrive da sempre ma riesce a pubblicare solo nel 1999 per Marsilio, esordendo con un intricato romanzo, Il Cadetto. Ma quest’uomo semisconosciuto doveva ancora lasciare il segno e lo ha fatto narrando soprattutto della sua città, della nostra città: Taranto. Una Taranto che vuoi o non vuoi appare distrutta, incontaminata, stuprata e macchiata indelebilmente. Vicolo dell’Acciaio (Fandango), Maschio Adulto Solitario (Manni), Per Sempre Carnivori (Minimum Fax) sono dei titoli incisivi, compari, nei quali Argentina eviscera una rabbia colossale, qualcosa che nemmeno lui sa da dove provenga. D’altronde è un tipo tranquillo, ‘sto cinquantenne docente di diritto. Anzi, quando lo vedi ti chiedi: «Cristo, ma uno col giubbotto Conbipel e la pressione alta come cazzo fa a scrivere delle pagine così atomiche?». Poi lo scruti un attimo, gli guardi gli occhi che ti crocifiggono lentamente, un chiodo nel polso per volta, e ti rendi conto che Emiliano Maresca, il protagonista della sua ultima opera, L’Umano Sistema Fognario, non poteva che crearlo LUI, Cosimo. Uno che scrive duro e ti lascia addosso una cicatrice infetta.
Giriamo due, tre ore buone per il manicomio di Limbiate poi, sulla Dacia Duster di Cosimo, sfanghiamo verso il Bar Blu Seves, ambientazione del suo secondo omonimo romanzo. Ormai è in mano ai rossi cinesi ma resta una delle stimmate argentiniane. Ci spariamo in battuta due Tennent’s e un panino imbottito e ce la dichiariamo senza bleffare che ci fa schifo ad entrambi, il bluff gratuito.
Be’ compare Cosimo… partiamo dal tuo ultimo romanzo, L’Umano Sistema Fognario. Grande Emiliano Maresca, un sociopatico sodomizzatore di sorelle, che però… però, tutto sommato, ha una sua logica, no? DEVE fare quello. «Maresca è un saggio, uno lucido nelle sue considerazioni. Il suo difetto? Non accettare compromessi. Piuttosto sta zitto. Il suo tallone d’Achille? Dover avere un cazzo di obiettivo per tirare avanti. Può essere il mito ancestrale di Anansa o il buco del culo del padre». Il buco del culo del padre…eh! Nei libri di Argentina, il padre del protagonista è fondamentale. C’è, non c’è, butta ceffoni come granate. «Ho utilizzato molto la figura di mio padre nei miei libri, perché ho avuto la fortuna d’avere un padre che era un personaggio criptico e mitologico… sì, lavorava all’ILVA, ma era un intellettuale. In Germania, lo vidi parlare dalle 8 di sera alle 2 del mattino in LATINO con un biondo tedesco. Perché mio padre parlava solo italiano e quello solo austo-ungarico, sicché s’accordarono sul LATINO. Mio padre non aveva la più pallida idea di cosa volesse dire essere un padre. Ero una fastidiosa escrescenza nel loro matrimonio. Ma io non la rinnego, ‘sta cosa. Che i figli vengano dopo il rapporto non è male. Anche se, inutile che lo neghi, mio padre era molto violento. Non sapendo e non essendo suo il ruolo paterno, appena c’era un problema lui SDRANGH! Alzava subito le mani sul malcapitato, me. Cinghie, mappini, calci, pugni. Rocky Balboa contro McMurphy…e io ero McMurphy». Un po’ come Ferdinand di Morte a Credito, no, che lui le piglia da destra e sinistra e manco sa perché.«Io, io voglio bene a Céline, al Maestro. Amo Ferdinand. Perché quando Céline dice “io non voglio fare letteratura. Io voglio scrivere le cose come stanno” io mi emoziono. Perché il vero scrittore deve scrivere le cose come stanno. Io purtroppo non sempre ci riesco. E qui c’aggiungiamo Stephen King, perché il VERO SCRITTORE, al di là delle doti velleitarie di scrittura, deve ricordarsi alla perfezione ogni ferita che ci portiamo dietro».
Le ferite quindi sono imprescindibili, dici? «Mah! Direi proprio di sì. Tipo, non sai Aldo Busi? Il suo primo romanzo, Seminario sulla gioventù, fu una botta. Poi vabbè, dopo… (e si beve una sorsata di Tennent’s per non infierire) però niente, ‘sto libro era fenomenale. E quando gli chiesero come mai era così carico di emotività, il romanzo, lui rispose che era tutto merito dell’infanzia triste. Che poi mica devono essere ferite da stupro, omicidio, rogo: bastano abbandono, difficoltà comuicative. Nemmeno ristrettezze economiche. E se rapporto a me questo algoritmo, io ho iniziato a scrivere perché in pubblico non parlavo mai, ero chiuso, e quindi iniziai a scrivere PER FARMI AMARE. Un modo per dire “ehi, ci sono!” Pensa che cazzata». Molto simile a chi fa graffiti, writing. Io per esempio iniziai a usare le bombolette per essere bravo in qualcosa, e anzi…anzi, iniziai perché volevo che i ragazzi della mia scuola mi chiamassero per uscire il weekend, dicendo robe del tipo “oh chiama Monfredi che è tosto!” «Sì, ci sta, il paragone c’è. Stando tra amici, mi spingo oltre, direi che ho iniziato a scrivere per avvicinarmi a mio padre. Con lui io non mi ricordo UNA che sia UNA conversazione, Lore’. A pranzo e cena tutti zitti, quando c’era lui. Testa bassa sul piatto e mia madre che ciancia di com’è aumentato il prezzo delle zucchine e menate così. Però lui era un idolo, a tutti gli effetti. Fa conto che lui m’ha lasciato quattromila libri… e quindi ‘sta cosa di scrivere era forse l’idea di dirgli “oh, amico, sto scrivendo così che tu possa leggere quello che io sento e avere un cazzo di rapporto decente”».
Ma quando tu hai iniziato a scrivere, lui t’ha mai… «E no, lui è morto nel ’92 ed ho pubblicato nel ’99 per la prima volta. E non gli hai mai fatto leggere un raccontino, una cosa? «Sì, una volta gli ho fatto leggere una cosa. Lui la sbircia e me la ridà dicendo “lass’stà ‘st’studicarije”, lascia stare ‘ste puttanate. Era un racconto in cui io stroppiavo di botte Craxi, lo uccidevo di mazzate. Bettino stava da qualche parte nascosto e io lo trovavo e lo crivellavo di pugni fino ad ucciderlo. E niente, mio padre mi restituisce i fogli con lo sguardo azzerato. Perciò nessuna fortuna, con lui. Zero soddisfazione». Le tue cose comunque colpiscono dentro, Co’. Io ho iniziato a leggere le pagine tue senza nessuna cognizione sulla Letteratura. Cioè, mi spiego: a undici anni Krol e il suo Cuore di Cuoio, e nel periodo burrascoso di trasferte ultrà, attivismo politico e risse, lessi Vicolo dell’Acciaio. E nella turbolenta stagione della maturità liceale, invece di scrivere la tesina, mi leggevo il mitico MASCHIO ADULTO SOLITARIO. «Secondo me tu hai colto una roba che io rivendico. Non dico di scrivere bene. Ma almeno rivendico ONESTA’. Se uno la coglie, come tu adesso, si lega alla scrittura perché pensa “questo qua non si vuole far bello, questo è uno che esibisce quello che vuole dire e quello che ha vissuto, robe però vere, follie vere”. Non metto scene splatter o altro perché VOGLIO stupire l’editore, perché voglio vendere. Io spiattello quello che mi viene in mente e basta».
Questa chiacchierata me la porterò nel cuore fino alla morte, nella tomba. «E quest’intervista è un omaggio a te e a quei pochi che mi seguono. Dai, date un senso alla mia scrittura. Me ne fotto della legge dei grandi numeri della minchia. Io tanto non ci camperei comunque, con la scrittura. Insegno!». Credo che il tuo non essere un “professionista” della scrittura faccia tanto, anche. Cioè ‘mbà tu non smorzi mica i toni! Alzi sempre la carica del fucile! Sai no, tipo Palahniuk ha fatto Fight Club e altri due, tre libri cattivi. Poi è scemato in mezze commercialate, sempre folli, ma commercialate. «Da questo punto di vista, ho trasformato la mia debolezza in un punto di forza. Io non ho mai sfondato a livello numerico. La critica sì, ok. Ma non ho mai conosciuto la vendita enorme, tipo 50mila, 60mila copie. Ma manco 10mila, onestamente! E però se il mio primo libro, Il cadetto, avesse spaccato, forse ne sarei stato condizionato e avrei scritto storie sulla sua falsariga. Magari non sarebbe venuto fuori L’Umano Sistema Fognario, o nemmeno Vicolo dell’Acciaio. Io scrivo quello che cazzo voglio, in sintesi. Dinamite. Dinamite che poi fa creare dei legami coi lettori appassionati come te». Infatti mai sentito così a mio agio, Cosimo. Sarà che, leggendo i tuoi libri, ho capito alcuni meccanismi mentali tuoi, e mi sento fa’ che ti conosco da anni. È come quando mi leggevo Bukowski a manetta. Ci sono quelli che lo leggono per il sesso e l’alcol. Io son partito da quello e sono arrivato alla PIETAS di Bukowski, che è enorme. Il cuore di Bukowski è gigantesco, cazzo. «Persona Immensa. C’è un racconto suo, mi sembra si chiami 1 dollaro e 20 centesimi. Una signora porta il brodino a un barbone e lui lo versa dalla finestra. Il giorno dopo Mr. Barbone muore. E c’è una poesia, là, una sensibilità che molti pseudoscrittori sentimentali non hanno». Un altro che si trova nei tuoi libri è proprio Céline. «Alla Al Pacino: che te lo dico a fare? Morte a Credito, Casse-Pipe. Céline è il Compadre, no? È chirurgico quando scrive. Un folle chirurgo». Un folle come Bartleby, lo scrivano di Melville, no? «Che mi tiri in ballo! Melville là ti fa capire cosa sia il genio. Ti dice cos’è una forma di follia quotidiana che tutti abbiamo, io e tu ce l’abbiamo, e riusciamo a tenerla a bada a scudisciate interne ma certe volte non basta. Almeno, io non ce la faccio, non so tu. E manco Bartleby, alla fine». Lasciamo stare che volano bestemmie. «Infatti c’è Clara, mia moglie, che quando scrivevo Maschio Adulto Solitario passava dietro la scrivania e mi diceva “mi fai paura” e io la guardavo in trance e rispondevo “cazzo, è una cosa buona”». Il calcio, Cosimo. Il calcio. Quella sfera di cuoio che vale quanto pesa. «Io amo il calcio perché là i mediocri non vanno avanti. Non è come nella letteratura dove i mediocri, se scrivono due-tre libri pessimi, campano grazie alla critica. A ‘sto mondo ci sono degli autori insignificanti che campano di rendita. Cioè, ho visto gente pubblicare in Marsilio e subito dopo in Mondadori. Ma vaffanculo! Ora scusami ma vado a pisciare».
Cosimo svuota le taniche, paga e c’imboschiamo di nuovo nel suo SUV Rumeno e ci dirigiamo verso casa sua, dove più tardi prenderemo un caffè.
Nei tuoi libri ho notato due fobie, due fisse: una sono i tossici, che stroppiano Colombia in MAS e Palata in Vicolo. L’altra sono le inculate – coercitive e per scommessa – alle quali sottoponi molti dei tuoi protagonisti. «I tossici li ho conosciuti grazie a Clara, mia moglie. Lei gestiva un bar malavitoso, quello dove siamo stati mo’ e là ho conosciuto i peggiori fattoni». Ti sei mai fatto, tu? «Solo una volta, una mia amica senegalese mi fece assaggiare della roba africana e le gambe andarono in anestesia totale. Mi misi in macchina e dopo cinque metri andai a schiantarmi contro un muro. Invece la faccenda dei gay, beh…no, non ho mai inculato nessuno sebbene in molti ci abbiano provato. E ho avuto un amico che nel 1980 s’è ucciso perché i genitori non accettavano la sua omosessualità. Questo è quanto paga il banco». Comunque, come il padre, è importante la madre. O no? «Cazzo sì! Mia madre era la protezione, mi salvava da tante curve prese storte. Mo’ non c’è più e niente, una delle ultime cose che ci siamo detti è stata “sai, ma’, ho scritto e sto per pubblicare un libro” (per sempre carnivori, NDR) e lei mi ha guardato dicendomi “è un buon libro? Che si vende?” e io “no, però è un buon libro.” Lei non ha mai letto i miei libri. Li trovavo intonsi. E m’ha fortificato, ‘sta cosa. Perché invece conosco alcuni scrittori che si fanno correggere i compitini dalla moglie (e parte una risata, perché Cosimo intendeva dire i manoscritti ma gl’è uscito un compitini inconsulto e freudiano). Io impazzirei». Tu capace che senza la scrittura saresti stato coinvolto in qualche tentato omicidio. «Credo di sì, cioè, non so se avrei ucciso qualcuno o meno. Sono convinto che la scrittura m’abbia salvato da qualcosa di brutto, di malefico. Della serie: una volta, una mia amica che era salita su un cornicione e si voleva buttare, mi fece “COME CAZZO FAI A VEDERE LA MERDA CHE C’E’ INTORNO E A TIRARE AVANTI A VIVERE?!” e io le risposi “Io la scrivo e mi disintossico.”. Boh, per cui non so. Diciamocela, io nella mia vita ho un percorso vitale mediocre: famiglia, macchina rumena, precario a cinquant’anni…però! Però quando mi siedo e scrivo non ce n’è per nessuno: IO SONO IL RE. IL TIRANNO. IL SOVRANO. Un sovrano illuminato».
Passiamo davanti alla Dresden, la fabbrica-incubo che, in Maschio Adulto Solitario, è l’enclave di Colombia, il protagonista, che lavora in questa fabbrica di tonno per qualche anno. Il cognato di Cosimo ci lavora e lui, per scrivere il romanzo MAS, ha braccato il cognato su turni/terminologia della fabbrica. Alla fine arriviamo a casa di Cosimo, un condominio marrone-beige con cancello automatico. Vicino a dove parcheggiamo spicca il 75, il civico 75, che nelle storie di Cosimo ritorna sempre. La Via Calabria n. 75. Saliamo e conosco Clara e i suoi due figli, Milena e Francesco, bei piccini. Una casa grande e legnosa. Odore di famiglia. Ma la faccenda seria è lo studio di Cosimo. Eh beh! Libreria ricolma di volumi di Céline, Dick, Melville, McCarthy, Hemingway, Bukowski. E le foto! Foto di Ferdinand, Hank, zio Ernest. Il tempio Argentina.
Beh, andiamo nello specifico: Emiliano, no, nell’Umano Sistema Fognario sodomizza le sorelle senza troppi problemi. Però… c’è il presupposto che sia in realtà Argentina a voler sodomizzare qualcosa nella letteratura contemporanea. Non so, eh! «Mmmh, lettura ardita ma potrei anche sottoscriverla. Io ho sempre mal sopportato la letteratura timida. Cosa intendo per timida? Uno che ha una bella storia in mente e che però non la racconta a dovere. Lo scrittore timido mi dà al cazzo. Come dice Crujiff: uno se la deve sentire di fare il calciatore. Sennò t’apri un tabacchino. È un urlo di dolore, quello di Emiliano, un j’accuse a un certo tipo di letteratura. Capisci quello che dico?». Come no. «Mica te l’ha detto il dottore di scrivere! Ti devi prendere i rischi. Esce tanta roba, ormai, ma il 90 percento è roba illeggibile. Non basta avere una bella storia e velleità di scrittura a iosa. Quello che conta è mettersi in gioco: quanto sei disposto a metterti in gioco?».
Pirandello diceva: o si vive, o si scrive. «Beh in parte la vedo anch’io così. Però senza vita non c’è scrittura. Sebbene ritenga che Pirandello intendesse dire che oh, inutile che vuoi avere una vita mondana. Vuoi scrivere? Vivi, fatti male, e passa in rassegna ciò che hai dentro. In realtà la vedo come Henry Miller: devi vivere in primis per poter narrare. Poi, la rinuncia, la privazione ci sta. Ad esempio, della mia scrittura ne risentono i miei figli. Loro il weekend vorrebbero magari andare a sciare e io sto chiuso in camera a scrivere, senza se e senza ma. Ovvio, per fare quello che faccio io ci vuole la compagna giusta, altrimenti non vai da nessuna parte. Devi essere fortunato. Devi trovare qualcuno che non te lo faccia pesare». Se ti dico “IL FAUT PAYER!” che mi dici? «Il Maestro Céline che ritorna! Cazzo se bisogna pagare. Se tu non scrivi qualcosa per cui non hai pagato amaramente non vale. È correlato al discorso di prima, al discorso di King. Una vita senza intoppi è una vita paradossalmente patetica, piana. La invochi per i tuoi figli ma alla fine non esiste. A me, ti dico, è capitato che la sera prima avevo parlato di Milan-Juventus con mio padre e il giorno dopo rispondo al telefono e mi fanno “Attan’t, tuo padre, è morto.”. Capisci, no? Non ne sono contento, sono andate così le cose. Però queste amarezze sono sfociate poi nella mia scrittura febbrile…e…e niente». Cinque scrittori senza i quali Argentina non sarebbe quello che è oggi. Ah, magari te li scoperesti pure? «L’unica che mi scoperei è Beryl Markham, ma mi sa che era lesbica. Ha scritto “Il magnifico Ribelle” ed Hemingway stesso ne rimase impressionato. Una belva pura. Numero cinque. A scalare, al quarto posto, metterei Edgar Allan Poe, il primo amore, e pensai “cazzo, magari provassi le emozioni che prova questo…”. Sul podio, terzo, ci mettiamo Bukowski. Lui ti fa a pezzi restando se stesso. Ti racconta quello che siamo senza inventarsi un cazzo. Secondo ci va un arabo, Mohamed Choukri, che impara a scrivere a quarant’anni in prigione e diventa un due volte candidato al Nobel della scrittura. Che voglio dire con questo? Voglio dire che il genio, il talento, se c’è resiste oltre le sovrastrutture. Oltre gli intellettualismi. E questa cosa delle sovrastrutture è predominante, in Italia. Melville, chi era? Un doganiere. Conrad? Un marinaio. Eppure! Ne hanno scritte, di bombe a mano. C’infilerei, ex-aequo con Choukri, anche Dick. Ah, e poi, al primo posto…». Pronostico: è un bretone, no? «E cazzo! Guardando in libreria becco “Viaggio al Termine della notte” – che già da sé solo il titolo vale il prezzo del biglietto – e mi si apre un mondo. Céline, sebbene abbia scritto alcune cose farraginose, lente, resta il fuoriclasse. Che dire? Tu fischieresti mai Baggio? No! Tu lo vedi giocare perché sai che ci sarà il lampo, il prodigio che varrà quello che hai speso. Con lui, con Céline, trovo uno scrittore che se la combatte con tutti. Insuperabile. Ha una dote unica: ha distrutto il romanzo tradizionale, ricostruendo il tutto con uno suo STILE PERSONALE. Non lascia eredità, gruppi letterari, spugnettamenti a vicenda: resta Céline». Se tu potessi dire qualcosa alla grande editoria, che le diresti? «Vaffanculo bastardi vi do fuoco. No, scherzo. Però direi di darsi un certo contegno. Tutti ripetono che il libro è un prodotto, un prodotto! Vuoi mettere la narrativa commerciale? Ci sta. Il libro di cucina? Ci sta. Però se avessimo visto i libri dei grandi Carnivori del passato – Dostoevskij, Kerouac, Céline – come PRODOTTI PER INTROITI, avremmo la metà dei capolavori che di fatto leggiamo. E poi vorrei dir loro: NON DISPERDETE IL PATRIMONIO GIÀ RIDOTTO ALL’OSSO DEI LETTORI. Ci vuole coraggio! Cioè, non puoi spacciare libri di merda come CAPOLAVORI, un termine inflazionato. Perché il lettore come te, come me, come tanti altri, alla fine s’accorge del bluff. Capisce che quello che sarebbe un “CAPOLAVORO” è una purga, e lo perderai. Ci lamentiamo di quelli che non leggono! Ma poi, se proponi libri insignificanti, è un effetto naturale».
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