Letteratura
La confessione
Amici, una cosa vi devo raccontare.
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Di una mia confessione – anni fa.
Scolpita nella memoria.
Ma io i ricordi
non li amo.
Questo però è vivo. Più di ogni altra storia.
E allora, ne scrivo.
Entrai in chiesa,
era buio. Entrai, come avessi patito un’offesa.
Sentivo rancore, nel cuore.
Ma (vi giuro: le mani
mi tremano), cominciai a pregare.
Non so ben dire
chi e per cosa; sentivo,
lieve, una costernazione.
E la voglia di mettermi
a piangere. Di disperazione.
La casa di Dio profumava
di fiori, e io respiravo
un’aria dolce di pena.
Che vale temere il nemico
fuori, quand’è già dentro?
Così mi accostai al confessionale:
mi inginocchiai. Feci il segno di croce.
Parlai. Di cosa, non so.
Forse del peccato più grave
– la colpa di omissione.
Il prete taceva.
A me, si incrinava la voce.
“Potrei fare e dare.
Non do e non faccio”.
E poi “Non sono sicura
di credere. C’è troppa nebbia”.
Infatti, che ne sappiamo
noi tutti, di quel che ci aspetta
di là, passata la cresta?
“Lei prega?” mi chiese severo
il pastore di anime.
“Di rado”, risposi.
“E non, come accomoda dire
al mondo, perché Dio esiste:
ma, come uso soffrire
io, perché Dio esista”.
“Ha dubbi di fede, dunque”,
ripeteva, quasi parlando a se stesso.
E poi mi chiedeva dei miei rapporti
con gli altri. “Ma io non vivo.
Così, non pecco. Scrivo.
Scrivo”. Ammettevo
contrita. “Io, da soldato
semplice, il mio dovere
e stop”. Aspettavo una parola
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di condanna. Tra noi,
rammento, circolava
un’aria che mi sgomentava
di solitudine. E lui,
impaziente:
“Chi fabbrica una fortezza
intorno a sé, s’illude
quanto, ogni notte, chi chiude
a doppia mandata la porta”.
“Ma Dio può entrare?
E’ in grado di forzare
le catene del cuore?”
Sbuffava, pensando (“Che mai volete
da me – da questa mia miseria
senza teologia?”).
Teneva il piede
saldamente posato
sulle cose concrete. Chiedeva
che gli enumerassi i peccati.
“Non sono molti.
Altra cosa è la fede”.
“Ma allora, cos’è venuta a fare?
In fin dei conti, cos’ha da confessare?”
Sembrava irato, forse turbato.
Capii il mio errore,
mentre pronunciava la formula
dell’assoluzione.
“Cosa vuole da me, signora?
Sono un povero prete. E in Dio
– non so se riesco a crederci più.
Dubito anch’io”.
Mi alzai (nemmeno salutai)
uscii all’aperto. Il freddo
pungeva. Premeva ancora tutto l’inverno
(il brivido: il caldo)
del mio infantile inferno.
Omaggio a Giorgio Caproni, rileggendo Congedo del viaggiatore cerimonioso
In Omaggi, Einaudi, Torino 2017
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