Costume
La comicità sentimentale di Ermanno Cavazzoni
In un giorno qualunque di questo ritiro tra le mura di casa, mi è apparso davanti agli occhi lo scrittore Ermanno Cavazzoni. Io ero solo, davanti allo schermo, e anche lui a quanto pare. E’ stato un incontro a sua insaputa: era dentro un video forse da casa e stava dicendo qualcosa che nella distorsione cognitiva da quarantena inoltrata, ho sentito fosse indirizzata a me.
A differenza dei tanti video che partono a ogni sfioramento di tastiera e ti riempiono di dettagli di vite altrui spesso indigesti, questo filmato era sobrio: un primo piano (quasi primissimo), autentico, ironico ma senza compiacimento; molto personale questo sì, ma allo stesso tempo discreto, e un poco sghembo e tremante, con quell’ aurea poetica e provvidenziale generata forse dalle settimane di clausura.
Ho alzato il volume degli altoparlanti per meglio sentire cosa dicesse quella voce. Pareva profetizzare, o dire un fatto intimo e allo stesso tempo oscuro. Si trattava della fede comunista, altri tempi. Con quell’incedere emiliano, quieto e sornione, Cavazzoni raccontava qualcosa che a un certo punto prendeva addirittura una piega seria, o anche serissima, poi d’un tratto la voce terminava ed è lì che ho cominciato a ridere. Senza nemmeno rendermene conto, dopo tanti e tanti giorni cupi, io ridevo.
Ho riso io davvero? mi sono chiesto tornando a ridere, di un ridere che strideva con quel volto cereo e vagamente spiritato che mi restava impresso davanti agli occhi. Dopo un certo silenzio nel quale ho sentito come un senso di liberazione e di illuminazione, ho scoperto che c’erano altri video collegati al primo, come tante puntate di una sola storia, e ho cominciato a vederli, uno dopo l’altro. Erano tutti estratti da un suo libro dal titolo Storie vere e verissime, uscito a novembre scorso per l’editore La nave di Teseo. La fattura dei video era sempre la stessa, ma in alcuni di questi – forse erano tratti da quelle storie che lui chiama verissime – l’autore sembrava a tratti più provato, o addirittura triste, come rassegnato alla fatica eterna di chi ha il dono di fare ridere, a suo discapito, e a quel destino inevitabile è chiamato per tutta la vita, e anche dopo, alla fine della vita.
Ho continuato a osservare bene quei filmati. Il primo piano lasciava intravvedere quasi nulla: un basco nero sulla testa, il colletto di una polo appena un po’ sollevato (simbolo di combattività e resistenza, senza eccessi narcisistici) e un lembo di una coperta a scacchi rossi e bianchi dietro la nuca; eppure arrivava da quella piccola finestra aperta nella penombra del suo privato, tutto un mondo di suoni e di versi selvatici che se non fosse stato anche per quelli il messaggio filosofico-esistenziale della lettura non sarebbe stato altrettanto credibile, specie in questo momento eremitico e quasi catastrofico, per lo meno dal punto di vista umano. Al fruscio delle pagine che un arto invisibile girava dietro la telecamera, si univano versi di oche selvatiche, di merli in amore, e a un certo punto è parso addirittura di sentire il grido disperato di un pavone. Ero convinto, il giorno dopo ho ordinato il libro a domicilio e dopo averlo ricevuto in tempi rapidissimi l’ho letto e ho riso di nuovo ad ogni storia, come era capitato con le puntate video. E’ stato un confronto importante: sia i video che le pagine scritte erano quindi manifestazioni vere, verificate l’una nell’altra grazie alla prova ripetuta della risata.
Dal punto di vista stilistico e dei contenuti si tratta di trentacinque prose brevi, corsivi di natura letteraria, più spesso satirici ma pronti a indirizzare il lettore verso quelle che Cavazzoni chiama le verità esemplari, cioè coerenti alla vita ma non necessariamente ad essa corrispondenti. Storie tratte da diversi luoghi dell’immaginario che scopriamo vere quando illuminate dal poeta. Non è un caso che lo stesso Ugo Foscolo sia tra i protagonisti tragicomici e poetici di queste storie.
Leggendo le storie di Cavazzoni, ho compreso che tanti paradossi apparentemente insolubili, finiscono per generare uno scuotimento mentale benefico, che ci libera dal dominio del reale e ci proietta verso “verità ulteriori”. Proprio questo paradosso, scoppiando in una risata, diventa capace di illuminazione, e quindi di benessere spirituale. L’effetto può anche essere breve, ma si rigenera ad ogni nuova lettura, anche a distanza di qualche tempo. L’ho verificato.
Dalle varie considerazioni è nata la convinzione che questo libro di storie sia nel suo intimo un’opera Zen che celebra un ridere mai fine a sé stesso, ma piuttosto virtuoso e generoso, capace di schernire l’orgoglio cieco della ragione e condurci verso la realtà ultima dell’esistenza che è il vuoto.
Ecco il vero significato di tutte queste storie sulla vita, la morte, la carriera politica, e anche quelle altre sugli alieni, sul purgatorio e sull’accoppiamento umano o sulle riviste nelle sale d’aspetto dei medici. Sono tutte storie necessariamente verissime, perché fondate su una pratica spirituale rivolta al profondo inganno della vita, al paradosso dell’esistenza e alla sorpresa di certe intuizioni e dunque alla risata risolutiva, dissolvente. Così io ridevo per contrarietà alla ragione, per paradosso appunto, davanti a quella disperazione che ogni giorno ogni voce mi ripeteva come un mantra; ridevo contro l’incoerenza delle altre storie che sentivo alla radio o alla televisione, le discordanti pretese di verità dei dati e delle date; ridevo in fondo come in una delle storie verissime di Cavazzoni, dove il grande Totò, esalando gli ultimi respiri, si vendica della morte e della vita con una battuta rimasta poi famosa, anche nell’aldilà (la troviamo nel libro).
Il Budda, secondo la tradizione Zen, sorride; lievemente, col riso stempera le fatiche inutili dell’esistenza. Ecco che il mio sacerdote Zen in questi giorni irrigiditi dall’impotenza della psiche, io l’ho trovato: era ed è ancora lì, in quei video e in quelle parole; col quella faccia serafica, Ermanno Cavazzoni è giunto in soccorso agli spiriti – come me – pericolosamente chiusi nelle proprie ragioni (e prigioni); era arrivato a spandere il sorriso di storie vere e ancor più che vere quando non addirittura verissime. Verità esemplari, tratte dai secoli lontani o da futuri improbabili, tali da non ridursi al semplice confronto con la realtà sensibile, ma con tutto il “possibile cosmico” e anche tutto l’impossibile di una materia infinita nel suo spettro immaginifico che si chiama vita.
C’è chi ha parlato di comico teologico (ridere dell’aldilà nell’aldiquà e viceversa), riso liberatorio, di comico metaforico o linguistico, ma è una vera e propria disciplina di studi filosofici, teologici e anche antropologici il comico. Non ci si può arrogare qui una definizione certa della comicità di Ermanno Cavazzoni, ma fatte salve legittime smentite, possiamo azzardare l’idea di una comicità del sentimento delle opposizioni alla vita, cosmiche e terrene, capace in ultimo di alleviarne i dolori, le più tragiche conseguenze.
Nella maturazione quasi marcescenza del tempo umano, nella crescita demenziale dell’uomo postmoderno, questo libro, collocato in un tempo oscillante ma convergente nel presente, è forse un’allegoria della quotidianità. Attraverso storie apparentemente assurde o di “verità artistica”, il libro vuole forse dirci che il vero è superiore al reale, proprio in un momento in cui siamo costretti a vivere dentro l’ir-reale e crederlo vero. Tanti affermano che siamo nell’era delle post-verità, ma tramonterà anch’essa, e allora è possibilissimo che si torni a pensare ad altri mondi, altri inferni o altri paradisi; a immaginare incontri con alieni buoni e ingenui, spiriti immortali che vagano tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, e forse anche coi santi, con tutto ciò che nelle storie di Ermanno Cavazzoni sarà già stato vero, anzi verissimo.
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