Letteratura
La colonna infame o del capro espiatorio
Nel 1982 fu Leonardo Sciascia a dare la sua interpretazione, in una introduzione per alcuni versi sorprendente, della Storia della Colonna infame (Sellerio, Collana “La memoria”, n. 27). In quel testo definiva «burocrati del Male» i giudici che mandarono Piazza, e Mora al lungo supplizio in pubblico.
Ma soprattutto di quella ristampa è nel risvolto di quella edizione che Sciascia spiega l’urgenza della sua proposta editoriale. Scrive Sciascia:
“Definita romanzo-inchiesta da uno dei suoi critici più sagaci, moderna e attuale nella materia e nella forma, avvincente e inquietante, questa piccola grande opera è conosciuta da non più di uno su cento italiani mediamente colti e da non molti «intellettuali». Per tante ragioni: e non ultima quella per cui oggi il Parlamento restaura il fermo di polizia e l’opinione dei più inclina al ritorno della pena di morte, senza dire delle leggi speciali nei riguardi del terrorismo per la cui semi-impunità ai «pentiti» ripropone l’analogia che il Manzoni stabilisce tra tortura e promessa di impunità”.
Ci sono almeno due questioni che Sciascia mette al centro di queste poche righe.
Nell’ordine:
1. Il fatto che un testo considerato «classico» non sia in realtà un testo noto, nemmeno nell’argomento, ma sia, al più un testo evocato (la stessa cosa, è capitata a un testo come il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani di Giacomo Leopardi che diventa testo parlato in pubblico, o almeno evocato solo con la vicenda di Tangentopoli all’inizio degli anni ‘90 del Novecento; la prima edizione di quel testo, ricordo, è del 1906; ma bisognerà attendere glianni’80 e poi Tangentopoli perché quel testo abbia uno spazio editoriale suo e cessi di essere un’appendice).
2. Il rapporto con il profilo dell’azione politica.
Per Sciascia, dunque, leggere la Storia della Colonna infame è un modo per prendere la misura del tempo presente, rappresentato,asuo avviso, dal concetto di «tortura» o, meglio, di «uso politico della tortura».
Non che Sciascia non registri altri elementi, per esempio, il dato relativo al complotto o al “nemico interno”, e dunque alla necessità di perseguitarlo e punirlo. Questo aspetto, tuttavia, per lui è secondario.
Ora nella nuova edizione di Storia della colonna infame uscita nelle settimane scorse da Einaudi e accompagnata da una ricca e documentata introduzione di Adriano Prosperi, è proprio il complottismo e la costruzione del nemico interno a costituire il nucleo centra della riflessione che Prosperi propone.
Adriano Prosperi muove da vari elementi che motivano Manzoni a riflettere su quel tema della ossessione del nemico interno.
Lo spunto, sottolinea Prospri, sta nella riflessione che Manzoni coglie nella degenerazione del “Terrore giacobino” a partire dalle memorie del girondino Dominique-Joseph Garat (1749-1833) e che egli legge nei mesi della composizione del Fermo e Lucia. Ma soprattutto si concentra Prosperi nella seconda parte della sua lunga e argomentata presentazione (p. XXVI e sgg.) sul comportamento dei giudici che, scrive, “mettono a tacere la propria coscienza perché pressati dall’urgenza di dare in pasto dei colpevoli ai traballanti poteri della città” [p. XLVI].
Dunque: trovare dei colpevoli, ma, soprattutto, inventarli.
Per farlo si tratta di creare una categoria di colpevole, di nominarla, e di associare a quella parola la descrizione e il concetto della colpa da espiare.
Nel Fermo e Lucia, Manzoni scrive che è solo in quella congiuntura dell’indagine e poi delle torture che nasce il vocabolo «untore» perché, scrive “il bisogno creò la parola”.
Quell’immagine, tuttavia, aveva una lunga storia di dietro di sé.
È nell’Europa degli anni ‘20 del XIV secolo, più di venticinque anni prima dello a diffusione della peste che la metafora dell’untore inizia a circolare, ad essere teorizzata e ad acquisire statuto concettuale e immagine accreditata.
Ricorda Prosperi che è stato Carlo Ginzburg nelle pagine del suo Storia notturna (in particolare il capitolo dal titolo “Lebbrosi, ebrei, musulmani”) a individuare nei lebbrosi, siamo nel 1321, il primo colpevole della epidemia. Un’accusa che presto si trasferisce sugli ebrei.
Quell’accusa rinnova l’accusa di omicidio rituale che poi ha accompagnato e dato un tono alle persecuzioni antigiudaiche in tutta Europa nel secondo (dall’XI secolo fino a quelle di primo Novecento) come molti anni fa ha scritto Furio Jesi nel suo L’accusa del sangue, un saggio per molti aspetti insuperato.
Quell’aspetto costituisce una suggestione costante per lettori sensibili. Una conferma alla ricostruzione proposta da Prosperi, per esempio, è in una lettera datata 24 marzo 1843 che Samuel David Luzzatto invia a Manzoni in cui Luzzatto lo informa delle pratiche legate al culto di presunte vittime di accusa del sangue e soprattutto la costruzione di una “colonna infame” a Trento a ricordo di un episodio di uccisione di ebrei per accusa di «omicidio rituale» (San Simonino) che è tornata ad essere creduta verosimile nell’Italia attuale (era il 2007).
Su quella lettera e su quel tema sul primo numero della rivista “Avinu” (Castelvecchi) ha richiamato l’attenzione di recente Claudia Milani in un saggio ad accompagnamento del testo di quella lettera proprio sottolineando la persistenza e la reiterazione di quell’accusa nella storia italiana.
Manzoni non affronta questo parallelismo nel suo testo, ma si sofferma su molti elementi che accompagnano quell’accusa e che legittimano quel parallelismo.
Il centro è nel capitolo XXXI de I promessi sposi in cui Manzoni racconta della dinamica della peste e del panico che essa determina.
Il tema è la dinamica di convinzione «dal basso» a cui il potere – in questo caso condensato nelle figure del sistema investigativo e giudiziario – cerca in tutti i modi di dare soddisfazione e dunque procurarsi consenso.
“.., negli errori e massime negli errori di molti – osserva Manzoni – ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, le apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle” [il corsivo è mio].
Dunque il tema è come si radichi la convinzione complottista.
Quella convinzione che, ricorda Prosperi nella pagina di chiusura della sua introduzione, non è un ricordo di un passato finito e sepolto nella nostra attualità acculturata, alfabetizzata e updated. Quel codice non ha avuto particolari difficoltà a ripresentarsi nel nostro tempo presente quando, nelle settimane della epidemia di COVID la sindrome del complotto e dell’accusa del sangue ha fatto di nuovo capolino «tra noi» questa volta tirando fuori il nome di George Soros. Ovvero quando, scrive, “abbiamo visto rinascere davanti a noi un mondo mentale fermo a secoli fa” [p. LXVIII].
Un mondo e una modalità che sono spiegati da Manzoni nelle prime righe della Storia della colonna infame quando scrive:
“L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate; e dal non dimenticar questa dipende il giudicar rettamente quell’atroce giudizio. Noi abbiam cercato di metterla in luce, di far vedere che que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia” [pp. 4-5].
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