Governo

La Casa Bianca alla prova: uno sguardo antropologico

21 Febbraio 2016

Qual è il background storico e culturale che ha sfornato Rubio? Che storia raccontano le prime sfide in Iowa e New Hampshire? Come si rapporta la stampa italiana con Trump e Hillary? Cerchiamo di capirlo con questa corposa galleria di ritratti.

Marco Rubio

Marco-Rubio-1

Di lui la vulgata dei giornali italiani dice che è il più moderato e sensato tra i candidati repubblicani, nonché il più “presentabile”. In realtà Marco Rubio è un robottino fatto e sputato, e s’è visto nel confronto televisivo con Chris Christie. Il governatore del New Jersey lo ha distrutto, umiliato, quando il senatore Rubio ha ripetuto le solite frasette imparate a memoria sulla necessità di fare – ancora – dell’America il Paese più grande della storia dell’umanità, e le sempre le stesse filastrocche sull’incapacità di Obama come presidente.

Ecco, vedete, a Washington non fanno altro che imparare un copione, diceva Christie, che pure è un candidato conservatore e buzzurro, ma perlomeno con il dono della brutale franchezza. E Rubio come ha risposto? Ripetendo proprio quelle frasette a memoria. Sembrava un automa difettoso, un droide finito in tilt. KO. Ma del senatore texano Rubio, giovane e fotogenico, preoccupa quello che riesce a dire. La sua dottrina è la sempiterna pappardella sulla Forza Americana (così la definisce): un mondo sicuro solo sotto la pax statunitense. Dunque più spesa per l’esercito, più controlli, più sostegno ai dissidenti dei nostri nemici, più prevenzione, più intelligence – come questo voglia dire qualcos’altro che non ulteriori interventi militari, vacci a capire.

Rubio è contrario all’accordo con l’Iran, contrario persino all’apertura democratica con Cuba, che lui continua a vedere come parte dell’asse del Male. Il motivo per cui piace tanto ai nostri neo-con è che lo osservano con l’occhio di Roma: l’Obama del Gop, lo chiamano. Il primo candidato mainstream di origine latina (i genitori sono cubani), relativamente giovane (44 anni), con le idee chiare in politica estera e quasi mai sopra le righe. Ma questa è una favoletta buona per consolare gli innamorati dell’America-terra-di-opportunità.

A conti fatti Rubio è un talebano sulle donne, contrario all’aborto pure in caso di stupro (e questo gli costerà caro in un futuro confronto con Hillary Clinton), e le sue origine latine le ha usate sempre in modo opportunistico, tentando dapprima di inventarsi la storia di genitori anticastristi (invece fuggirono durante la dittatura di Batista), e poi ritrattando. No, la storia più interessante che racconta Rubio non è la sua, ma riguarda il partito repubblicano: capace di rinnovarsi costantemente, di esprimere candidati alla Casa Bianca più “diversi” di quella democratici (sono passati l’indiano Bobby Jindal, il nero Ben Cason, per dirne due) e tutti ugualmente estremisti, bigotti, impegnati nel consolidare l’immagine di un partito incattivito e concentrato sulla difesa dei bianchi.

Il problema del voto latino non è di poco conto, tuttavia – il paese parla sempre più spagnolo, e spaventati dal pugno di ferro gli immigrati e i figli di immigrati votano, per ora, in massa democratico (con tutto che Obama ne ha deportati come mai nessuno prima). Il cuore dei latinos non è necessariamente progressista: a volte è cattolico, sessista e anti-africano. La partita, per le giovani generazioni si gioca a metà tra rivendicazione della propria obbedienza al sistema, della propria “americanità”, e introduzione di nuovi paradigmi: meno individualistici, meno stupidamente ottimistici. Il movimento dei Dreamers e degli scrittori chicani del South West è un ottima scuola per provare a capire questa lotta (con Junot Diaz e Sandra Cisneros le voci forse più ascoltate). Ma Rubio, o chi per lui, parla solo all’anima latina più conforme.

Ted Cruz

TedCruz031415

Il mondo occidentale è imbarazzato per la clownesca figura di Trump, ma il vero It della politica americana è lui. Non c’è posizione in politica estera o interna dove Ted Cruz no si distingua per il approccio violentemente bigotto. È contrario a maggiori controlli sulle armi e ad una più comprensiva riforma dell’immigrazione, è favorevole alla pena di morte e a nuove trivellazioni petrolifere. Favorevole alla liberissima circolazione di capitali e contrario all’aborto (con la sola eccezione di un serio pericolo di vita per la donna). Non gli piace l’Obamacare – ovviamente – e tantomeno il matrimonio omosessuale.

È a destra di Rubio su molti temi, uno fra tutti l’approccio con la manodopera straniera, che lui vorrebbe iper-qualificata oppure rispedita al Paese d’origine. Come farà a conquistare il voto decisivo di latinos e donne non ci è dato sapere, e in un ipotetico confronto finale con Hillary Clinton avrebbe contro buona parte dell’opinione pubblica. Quando parla in pubblico sembra talvolta impacciato (awkward come direbbero, usando una parola che detesto, gli americani) forse anche a cause di lineamenti sgradevoli, poco telegenici, che ricordano un ambiguo predicatore di campagna.

E come un predicatore conclude spesso i suoi discorsi in trance religioso, infarcendo le sue omelie con quel “God Bless America” che – basta fare un po’ di ricerca – è un’invenzione del tutto recente, mai davvero appartenuta alla retorica americana prima che la utilizzasse Ronald Reagan in modo furbesco. Ma Cruz appartiene anima e core alle contraddizioni e agli eccessi di quel continente che è il Texas, di cui è senatore (proprio come Rubio): nato in Canada da padre cubano e madre americana con antenati irlandesi e italiani, di religione battista (il ramo più folto, sebbene in calo, della famiglia protestante) ha un curriculum invidiato in tutta la destra: studia ad Austin che è una delle città più progressiste dello Stato, facendosi strada tra i salotti repubblicani e gli studi di avvocatura, poi giovanissimo assistente del giudice della Corte Suprema William Rehnquist (noto conservatore), anni pagato per fare il conferenziere sui miti fondativi del neoliberismo, da Hayek a Von Mises a Friedman, con centinaia e centinaia di discorsi imparati a memoria (una pratica mnemonica che non lo avrebbe mai abbandonato) infine una carriera strepitosa in uno studio legale privato, a difendere principalmente multinazionali. Fa paura, ma il suo percorso è assolutamente cristallino.

Donald Trump

trump2-614x348

Chissà se Donald Trump ha mai letto il terzo libro del Capitale di Karl Marx: «Il capitale stesso che si possiede nella realtà oppure nell’opinione del pubblico, diventa soltanto la base per la sovrastruttura creditizia». Quando scrisse la sua autobiografia più famosa, The Art of the Deal, nel novembre del 1987, Trump era all’apice del successo: le interviste che rilasciava facevano impennare le vendite dei giornali, le sue comparsate in tv facevano impazzire l’audience, le edicole traboccavano di titoloni con le sue sparate.

Proprio come nel 2015, insomma. Un mese dopo sarebbe uscito nelle sale Wall Street di Oliver Stone, e qualcuno avrebbe detto che Trump era l’archetipo della generazione “Greed is Good”, l’avarizia fa bene – vedi la frase pronunciata da Michael Douglas nel film. Mancavano quattro anni alla bancarotta che avrebbe spinto Trump ad eclissarsi per quasi due decenni, ma in quel libro l’immobiliarista spiegava bene, con la consueta sfacciataggine, il rapporto perverso tra lui e i mass media e imprenditori. “Una cosa che ho capito della stampa è che è sempre affamata per una buona storia, e quanto più questa è sensazionale, meglio è”, scrive a pagina 56. “Il punto è che se sei un tantino diverso dagli altri, o un tantino più svergognato, oppure se riesci a fare cose che siano coraggiose o discutibili, la stampa parlerà di te”. “Non mi dispiacciono le polemiche, e i miei affari tendono ad essere sempre ambiziosi, in qualche modo”, aggiunse. Non importa se quel piano – all’epoca si trattava di progetto edilizio, nell’Upper West Side, oggi di un progetto politico – fosse realizzabile o meno, quel che conta è che se ne parli. E che il valore della speculazione si gonfi col chiacchiericcio. (Per quel progetto Trump in mano aveva poco o niente, quasi nessuna autorizzazione, e alla fine la Trump Tower sarebbe stata costruita sì, ma molto più piccola del previsto).

Quando le primarie repubblicane arriveranno a metà strada il Barnum Trump probabilmente si fermerà, ma questo mix tra Berlusconi e Salvini ha il merito, trollando qui e là, di scoperchiare un po’ questo farlocco sistema bipartisan. In un confronto tv gli chiesero come mai scendesse in campo a sparigliare le carte tra i conservatori, pur avendo finanziato decine di politici democratici, compresa Hillary (che era stata col marito al suo matrimonio), ed essendo notoriamente liberale su molte questioni (inclusa la sanità universale). E lui, senza colpo ferire, ammise che aveva pagato tutti, inclusi i suoi avversari repubblicani, quando e come gli faceva comodo. Dicono che la sua ascesa sia il contraltare dell’America ex-sessantottina che vota Sanders, ma è vero solo in parte.

Trump è newyorchese del Queens fino al midollo: imbonitore sfacciato e sbruffone laico, troppo pragmatico per credere alle fandonie e alle omelie dei predicatori che lo sostengono. Imbarazza gli expottimisti nostrani perché gli rovina l’immagine del modello Americano, ma è più di sinistra lui che Rubio, o Cruz. C’è da sapere che incontrò Bill Clinton prima di far partire la campagna elettorale. C’è da sapere che quel vecchio volpone di Bill lo incoraggiò. Non dico che Trump è una creazione in laboratorio dei Clinton – è troppo egocentrico per esserlo – ma la sua discesa in campo sta riducendo in farsa l’eredità di George W., ed è il più grande regalo che Hillary potesse avere.

Bernie Sanders

151013_POL_bernie-sanders-debate.jpg.CROP.promo-xlarge2

Il Partito Democratico guardava con un certo affetto all’anziano senatore del Vermont, quando decise ufficialmente di candidarsi. Era un ex indipendente che rompeva le scatole in primarie già decise, è vero, con Hillary che lottava solo contro se stessa e poco altro. Ma l’idea era che Bernie Sanders avrebbe fatto da battistrada per argomenti che altrove erano tabù, testato la sopportazione del pubblico per temi un tempo cari soltanto a Occupy Wall Street, e dopo pochi metri di corsa si sarebbe ritirato pacificamente, consegnando il suo bacino elettorale all’ex segretario di Stato. Le cose non sono andate proprio così. Sanders ha in pochi mesi colmato il divario spaventoso in termini di sponsor che lo separava da Clinton, e lo ha fatto soprattutto grazie ai piccoli donatori, che rappresentano i quattro quinti dei suoi fondi (contro appena un ottavo per Hillary).

In Iowa ha perso di pochissimo, grazie a sei lanci della monetina consecutivi vinti dalla sua rivale, una vera beffa, e poi in New Hampshire si è preso la rivincita, battendo Clinton 60 a 38 – più di qualsiasi previsione, capovolgendo i sondaggi di appena 12 mesi prima. Al contrario dell’ex senatrice, ex First Lady, ex tutto, Sanders più parla più suscita entusiasmo, qualcosa che non si vedeva dai tempi di Obama nel 2008, e la cosa non va giù agli americanisti “foglieschi”, che in Italia attribuiscono la sua ascesa ad una gioventù hipster viziata e frignona.

Non è proprio così, e se è vero che la Costa Occidentale dove Sanders va forte è famosa come rifugio di cantautori libertari e famigliole progressiste, è pur vero che la condizione degli under-30 in America, sommersi di debiti, oberati di lavoro e con salari mai sufficienti a pagare l’affitto, andrebbe presa più seriamente di così. Pure la propaganda delle femministe americane “per Hillary” (le hillariti, io le chiamo) si è incattivita, e scrittrici come Kathi Pollitt, Amanda Marcotte o Lena Dunham sostengono che il successo di Sanders sia dovuto a pregiudizi sessisti e agli odiatissimi compagni “brocialist” (neologismo che fonde “bro”, fratello, compare e “socialist”). La storia del New Hampshire è però un’altra: Sanders ha conquistato il 55% del voto delle donne e l’83% di tutti gli under-30.

Sono numeri strepitosi per un candidato che è oggettivamente il più a sinistra dai tempi di Eugene Debs negli anni Dieci e Venti del secolo scorso. Lui intanto può cincischia di politica estera senza esporsi troppo, forse sorpreso dal suo stesso success; affida i suoi spot elettorali alla figlia di Eric Garner che fu soffocato dalla NYPD e alle struggente “America” di Simon e Garfunkel. Difficile accettare che si tratta di un banale socialdemocratico, persino cauto con la questione palestinese, forse più simpatico di tanti colleghi europei perché può permettersi di conservare un delizioso accento di Brooklyn.

Hillary Clinton

-1

«Ci sono delle sensazioni che proviamo, sensazioni che ci dicono che lo stile di vita aziendalistico dominante, avido e competitivo – e in questo includo tragicamente anche il mondo universitario – non è lo stile di vita che fa per noi. Noi siamo alla ricerca di modi di vita più immediati, seducenti e penetranti». È il 1969. A pronunciare queste parole, nel mezzo del suo commiato di laurea al Wellesley College, è una giovanissima Hillary Clinton. La stessa persona che, 45 anni dopo, avrebbe guadagnato oltre 200.000 dollari per parlare 20 minuti come ospite di un gruppo bancario. O che avrebbe annunciato la sua discesa in campo per le primarie presidenziali garantendosi un “quantitativo pazzesco di denaro” (per usare le parole di un suo consulente) da quelle stesse banche.

O che avrebbe garantito, con lettera firmata, il suo sostegno ad un ricchissimo falco e ultrà filoisraeliano come Haim Saban. Quanto sono cambiate Hillary e l’America, dal 1969. Quello era un Paese dove si potevano sì vedere interi quartieri metropolitani abbandonati al decadimento e allo squallore, ma anche file di centinaia di metri per vedere “El Topo” di Alejandro Jodorowski nel cuore di Manhattan in pieno pomeriggio, e un sindacato che non aveva nulla da invidiare a quelli europei. Un modo definitivamente scomparso proprio con i Novanta clintoniani più che con Reagan, e con il binomio economia globalizzata-repressione carceraria gli Stati Uniti avrebbero goduto del loro ultimo decennio dorato prima dell’11 Settembre. Ma oggi che il problema più urgente della società americana è l’ineguaglianza spaventosa, con una classe media impoverita e priva di stimoli, una crescita del Pil finita quasi interamente nelle tasche dei super-ricchi, con le briciole a tutti gli altri, che contributo può dare una Hillary ultrasessantenne? La sua causa è straordinariamente debole, ed è per questo forse che i democratici d’America e d’Italia si innervosiscono così tanto, quando qualcuno gliene chiede conto. I suoi fan, specialmente le femministe che “sono con lei” (come recita lo slogan della campagna, tutta ad personam e senza grandi visioni) ripetono principalmente tre mantra: è donna, ha esperienza, è il suo turno.

Appena qualcuno si sforza di analizzarli nel dettaglio, e lei intensifica la sua presenza pubblica, essi cadono uno dopo l’altro. Sì, Hillary è donna, ed è una vergogna che gli Stati Uniti (e l’Occidente) abbiano avuto leader prevalentemente pene-muniti. Ma il dato identitario può da solo garantire più emancipazione? Si diceva lo stesso di Barack Obama, ma la condizione dei neri non mi pare migliorata sensibilmente. Sembra dolorosamente ovvio, poi, menzionare il fatto che anche Margaret Thatcher fosse donna, e non sorprende che molti elettori progressisti sono tuttora fan della Lady di Ferro. L’esperienza di Clinton è evanescente: la riforma sanitaria, assai blanda, che tentò di introdurre durante il mandato del marito si risolse in un nulla di fatto; la sua attività da senatrice è davvero poca cosa, di cui si ricorda, giustamente, soltanto il voto favorevole alla guerra in Iraq.

Una decisione che però dice molto sulle potenzialità della sua presidenza: Clinton è estremamente aggressiva in politica estera, si vanta spudoratamente di prendere lezioni da un golpista relitto della Guerra Fredda come Henry Kissinger, e difficilmente avrebbe negoziato l’accordo con l’Iran. Infine, sul suo “turno”. Nel 2008 giocò davvero una brutta campagna e, allora come oggi, nonostante tutti i vantaggi di un cognome-brand celeberrimo, riuscì a dilapidare il vantaggio che aveva nei confronti di un outsider carismatico ma semisconosciuto.

Il suo sentirsi tuttora destinata alla presidenza è una prova, semmai, di quanto sia sclerotico il Partito Democratico. Con tutta probabilità stavolta ce la farà, ma soffrendo più del previsto. E quando i nostri inviati di lusso, non sapendo che pesci pigliare, dicono che la rimonta di Sanders è un segno della vitalità della plutocrazia a stelle e a strisce, c’è da ricordagli che senza il sostegno di quelli che loro chiamerebbero, con sprezzo, anti-americani, questa gara sarebbe stata infinitamente più noiosa.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.