Letteratura
‘Il cuore è la capitale della mente’. 10 dicembre 1830, nasceva Emily Dickinson
” Il cuore è la capitale della mente”.
Questo verso di inestimabile bellezza racchiude tutta l’essenza poetica e letteraria che si accompagna al genio ed alla sensibilità con cui Emily Dickinson vedeva la vita. Nata il 10 dicembre 1830 ad Amherst, città dello stato del Massachussets, da un padre noto avvocato, Edward, divenuto poi membro del Congresso degli Stati Uniti d’America. Educazione e formazione nelle migliori scuole di Amherst e di South Haley, ma che subirono un arresto per ragioni non conosciute quando, lo stesso padre, volle impedire alla poetessa di concludere gli studi frequentando le scuole superiori. Studi che furono ugualmente terminati in maniera autodidatta, sotto gli insegnamenti del precettore Benjamin Newton. A 23 anni, decise di non comparire più in pubblico e da quel momento fino alla fine dei suoi giorni, si concesse solo qualche sporadico viaggio, in cui conobbe le persone più importanti della sua vita. Su tutti il reverendo Charles Wadsworth, coniugato, di cui la Dickinson si innamorerà perdutamente, indirizzandogli versi struggenti e pieni di amore ardente.
Di Emily Dickinson è impossibile non celebrare la grandezza letteraria che sposa alla perfezione quella personale, femminile, umana. Nella sua esistenza, vissuta quasi in una condizione eremita, rinchiusa nella sua abitazione in Massachussets, scrisse in maniera ininterrotta una serie impressionante di poesie, oltre 3.500, quasi tutte venute alla luce post mortem. Una magnificenza scrittoria che nessuno conosceva prima della sua scomparsa. Talento di caratura superiore ignoto anche ai suoi affetti più cari. La sua reclusione silenziosa le permise, tuttavia, di comporre lettere contenenti incredibili capolavori poetici. La sua esistenza così ostinatamente tenuta riservata e priva di contatti sociali abituali, è divenuta un enigma anche per i molti biografi che hanno voluto tributarle nel corso del tempo, retrospettive dettagliate per l’importanza della sua produzione letteraria. Una specie di prigionia autoimposta, a cui la Dickinson volle incatenarsi sin dalla giovinezza, pur non avendo limiti di carattere fisico o morale che le impedissero di conoscere il mondo. Un paradosso, se si leggono i suoi incantevoli versi, nei quali è possibile scorgere la presenza costante di molti amori, passioni, verosimilmente dalla connotazione platonica, con cui deliziava i propri amati, rivolgendo loro, perle dal valore incommensurabile quanto a sensibilità e bellezza. I numerosi interrogativi che la sua scelta di abbandonare la scena pubblica ha fatto sorgere con il passare degli anni, hanno consolidato una idealizzazione al confine con la realtà, per certi aspetti, portando ad una fuorviante assimilazione con la castità virginea praticata nella vocazione monastica, indossando il bianco come esclusivo colore indicativo di purezza. Nel 1860 Emily Dickinson scrisse più di 400 poesie che lo Springfield Daily diretto da un suo carissimo amico, Samuel Bowles pubblicò. In quel periodo le convinzioni della poetessa statunitense, cominciarono a divenire più radicate, tanto da considerare concretamente l’ipotesi di ambire alla pubblicazione dei suoi scritti, che cominciò a raccogliere in opuscoletti. Le speranze di portare a conoscenza il mondo della sua cristallina prospettiva di vita, rendendo noti i propri versi, vennero tarpate dall’autorevolezza di un suo carissimo amico, il colonnello Thomas Higginson, con cui scambiava attraverso una instancabile corrispondenza, che fece leva sul timore della Dickinson di venire fraintesa dalla società dell’epoca, a causa delle sue idee tendenzialmente anticonformiste e pregne di indomita fierezza, soprattutto nel modo di cantare l’Amore senza infingimenti o remore moraliste. Quindi, tramontò l’ipotesi di tentare la pubblicazione, ma continuò a dedicarsi totalmente alla scrittura, nel segreto della sua stanza, come una pratica irrinunciabile e capace di donarle l’ossigeno necessario per far fronte alla solitudine ed alle angosce esistenziali. Negli studi condotti dopo la sua morte, da parte degli storici e dei critici, per conoscere ed approfondire la sua singolare ed illuminata penna, si ebbe modo di scoprire che nella corrispondenza che Emily Dickinson tenne con molti dei suoi affetti più importanti, ve ne fu una estremamente significativa con la cognata, Susan Huntinton Gilbert, detta Susie, a cui la poetessa dedicò innumerevoli pensieri pieni di affetto e devozione. Gli ultimi tempi della sua vita, furono un susseguirsi di dolori e lutti che la rinchiusero ancor di più in un isolamento quasi mistico, in cui le uniche concessioni legate al mondo esterno furono racchiuse nelle missive fiume che scriveva a parenti, amanti, ed amici. Morì l’adorato padre Edward, il suo migliore amico Bowles, il nipote Gilbert, la madre ed infine Otis Lord, canuto giudice del quale Emily si era innamorata. Conobbe anche la malattia e la sofferenza fisica che culminarono nella morte il 15 maggio del 1886. Grazie a Mabel Loomis Todd, amica di famiglia, tutta la produzione letteraria di Emily fu raccolta e conservata per poi essere pubblicata ed arrivare fino a noi. Superando anni di contrasti con i parenti della Dickinson che si mostrarono sempre molto restii all’idea di pubblicare i suoi scritti, caldeggiando per far rimanere nell’oblìo l’enorme talento della scrittrice. La prima raccolta delle sue opere ad essere edita fu “The Single Hound”, a cura della nipote Martha, nel 1914. Un esordio che la consacrò immediatamente nel firmamento dei mostri sacri della letteratura.
“Sei forse un peccatore? Ma per il dovere di rendere divina la Perdizione, chi ti potrà punire?”(E. Dickinson – Lettera a O.P Lord, 1878). Nelle lettere di Emily Dickinson emerge in maniera inequivocabile e sorprendente l’estrema libertà di spirito e la sua incapacità di arrendersi, forte di un nutrimento interiore donato dall’autenticità dei sentimenti, dalla fervida ed incontaminata immaginazione, tutt’altro che ingenua, tutto il calore di un cuore largo, capace di contenere l’ebbrezza rovente della passione, del desiderio, toccare persino le sponde della perdizione, e tuttavia, non rimanerne schiava, prosciugando la profondità della propria anima che voleva sempre e comunque alla bellezza della vita. Nonostante tutte le amarezze, le privazioni autoindotte e patite, le sofferenze dovute agli eventi ineludibili dell’esistenza umana, colpisce la sua caparbietà di oltrepassare qualsiasi sovrastruttura sociale, di urlare con decisione la sua autonomia di pensiero e di giudizio, il suo non accomodarsi all’utilizzo delle convezioni sociali ed il suo orgoglio nell’essere portatrice di anticorpi contro qualsiasi forma di disparità di genere e misericordiosa nei confronti di chi per amore ha sofferto, perché ha molto amato.
“A un cuore in pezzi nessuno s’avvicini senza l’alto privilegio di avere sofferto altrettanto”, cara Emily Dickinson.
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