Letteratura

Jovica Momčilovič, la guerra tra amore e desiderio nella Sarajevo che è in noi

27 Febbraio 2016

Nella sua opera d’esordio, “La creatura”, Jovica Momčilovič raccontava della guerra, della disperazione e del senso di sradicamento che produce un’emigrazione forzata dagli eventi. Serbo in fuga da Sarajevo e dal collasso della Jugoslavia, l’autore partiva dalla propria esperienza per tessere un racconto che si presentava come un intreccio tra due voci: un giovane serbo in fuga dalla guerra nella Jugoslavia dei primi anni Novanta e un vecchio bergamasco che, reduce dall’esperienza della Seconda guerra mondiale, risaliva la ex-Jugoslavia. Attraverso due guerre e lungo due direzioni, l’autore accompagnava i suoi lettori alla ricerca di quel che hanno in comune due anime vagabonde e in pena, sintesi di una condizione al limite dell’esistenza. L’angoscia e l’ansia, le attese infinite, il disorientamento, gli amori lontani che diventano vuoto interiore, il desiderio di sedersi davanti all’uscio di casa per non alzarsi più: sono questi i sentimenti che abitavano le voci dei due protagonisti, voci che viaggiavano parallele, diverse ma sorelle.

A distanza di un anno, con “I rari”, Momčilovič riprende il filo del discorso lasciato in sospeso. Di nuovo, la sua narrazione ci porta nel mezzo di diversi scenari di guerra, ma questa volta l’autore si sofferma maggiormente sul conflitto della Bosnia ed Erzegovina, ripercorrendo paesaggi abitati da scheletri e fantasmi, da comandanti di truppa privi di umana pietà e di senso della vergogna. Paesaggi in cui l’amore e il desiderio riescono comunque a trovar dimora, per quanto offesi da un tempo in cui le bombe e i proiettili sopraggiungono da ogni dove.

Le pagine di Momčilovič pongono il lettore di fronte a un orizzonte che taglia e spezza, che disintegra, seminando soltanto terrore e delirio. Un orizzonte composto anche da gesta eroiche e da miserie umane, da sporadici istanti di umanità, da tregue strappate alla battaglia per concedere ai soldati il tempo di sollevare un drappo bianco e recuperare le spoglie dei compagni rimasti insepolti sulla terra di nessuno. E chi combatte la guerra non è chi la vuole. Scrive Momčilovič: “La nostra guerra. Non voluta da noi… ma la nostra. Mandata da lontano, da interessi e poteri lontani, dall’Occidente… ma era la nostra guerra. Fatta da noi. Voi, i Mandatari… eravate il pubblico”. Una guerra senza ragione comprensibile, ma capace di mobilitare gli uomini, di trasformarli in cecchini alla costante ricerca di altri cecchini, in macchine di morte.

Quella morte divenuta una costante da cui si è perennemente in fuga, nel tentativo di aggrapparsi al senso di una vita che non ha più il sapore della vita, perché passata a contare quanti la abbandonano. A sopraggiungere in questo scenario di lotta per la sopravvivenza è la malattia mentale, estremo tentativo di fuga dell’anima. E la follia si accompagna spesso alla deformazione del corpo che, per certuni, fu tale da renderli irriconoscibili persino agli occhi dei propri cari, al momento del primo incontro, una volta conclusa la guerra.

Pochi ebbero realmente la possibilità di fuggire dalla Sarajevo assediata, passando attraverso il tunnel che conduceva alla periferia della città allo scopo di raggiungere Spalato e la costa, dove la guerra era finita prima. Pochi, e pagando un caro prezzo, per poi trovarsi dalla parte opposta del tunnel, comunque abbandonati a loro stessi. “I rari” ci conduce fino al punto in cui dovremmo fare i conti con chi è sopravvissuto, con l’irrimediabile, con l’impossibilità di ricomporre l’infranto. Ma non è solo di questa guerra, della sua guerra, che Momčilovič ci parla. È di quello che abbiamo di fronte, in queste ore, delle scelte che dovremmo ponderare al meglio oggi, delle risorse che sarebbe opportuno mettere in campo, per essere all’altezza degli scenari drammatici che si vanno delineando. E per non ripetere l’ennesima inutile strage.

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