Letteratura
Ismail Kadare e i labirinti della cultura
“Per l’albanese della montagna la catena di sangue e dei gradi di parentela si prolunga fino all’infinito”, recita all’articolo 101 il Kanun, l’onnipervasivo codice giuridico-morale degli albanesi dell’altopiano del nord {1}. Questa continuità, che dà profondità storica e radicamento alla vita individuale, si converte in una infinita scia di sangue: perché il Kanun stabilisce, ancora, che in caso di omicidio, la famiglia della vittima ha il dovere di vendicare il sangue del parente ucciso, secondo rigorose norme rituali; a sua volta, la vendetta andrà vendicata, e così via: all’infinito, appunto. Ed è così che un omicidio diventa una mattanza senza fine.
In Aprile spezzato, capolavoro di Ismail Kadare che La Nave di Teseo pubblica ora in italiano con la traduzione di Liljana Cuka Maksuti, il Kanun si abbatte sulla vita di Gjorg, un giovane buono e riflessivo sul quale pesa il dovere di vendicare il fratello. Compiuta la vendetta ottiene la besa, una di tregua di trenta giorni durante i quali potrà circolare liberamente, protetto dalle leggi dell’onore; alla scadenza della besa dovrà correre a chiudersi nella kulla, la casa-torre familiare, e trascorrervi nascosto il resto della vita, pena la morte. Nei trenta giorni di libertà il suo destino si incrocia con quello di Besian Vorpsi, un noto scrittore di Tirana che ha fatto fortuna scrivendo racconti sulla vita fiera e primitiva dei montanari dell’altopiano, esaltando la forza del Kanun, e che ora visita quelle terre a bordo di una carrozza elegante, in compagnia della bellissima e sensibile moglie Diana. L’incontro con la realtà dell’altopiano – interi villaggi deserti, perché tutti gli uomini sono chiusi nelle case-torri dopo aver compiuto la loro vendetta, ed i campi restano incolti – farà vacillare la sua idealizzazione, mentre l’incontro con Gjorg cambierà per sempre la vita della moglie.
L’atmosfera è kafkiana, soprattutto nelle pagine in cui il giovane Gjiorg si avvia, dopo l’omicidio, verso la kulla di Orosh, una sorta di fortezza che vigila sull’applicazione del Kanun, e dove dovrà depositare al più presto l’imposta del sangue, la tassa dovuta dopo aver compiuto la vendetta. Questo cuore oscuro dell’altopiano, che si alimenta anche economicamente con lo sterminio di intere generazioni, è tuttavia minacciato dalla modernità: dal sud, da Tirana, spira un vento diverso, un modo nuovo di pensare e di vivere che rischia di far vacillare le antiche regole. Si uccide sempre meno, e sempre meno soldi arrivano ad Orosh con le imposte del sangue.
Il romanzo di Kadare è ambientato in un tempo imprecisato, ma prima dell’avvento del comunismo; e ad una prima lettura può sembrare una denuncia dei mali antichi di parte del paese in un momento in cui essi sono già, almeno in parte, trascesi (“In nessun’altra parte del mondo puoi incontrare per strada persone che, come alberi marcati per essere abbattuti, portano su di sé il segno della morte”, dice Besian Vorpsi alla moglie). Ma leggendo il romanzo (che è del 1978, il periodo della rottura dei rapporti tra Albania e Cina, con il conseguente isolamento del paese) si ha anche la sensazione che il vero bersaglio di Kadare sia un altro. Lo scrittore si sofferma sui mille modi in cui le regole del Kanun imbrigliano la vita quotidiana, gettando una intera popolazione, oltre che nell’orrore degli assassinii incrociati, in una sorta di sindrome ossessivo-compulsiva collettiva: e questi furono i tratti del comunismo di Enver Hoxha, che terrorizzò il popolo paventando una improbabile invasione dei nemici e disseminando l’Albania di bunker antiatomici. La kulla di Orosh fa pensare a quell’altro segno di potere che fu la villa di Hoxha nel Blok, il quartiere centrale di Tirana allora riservato alle gerarchie del Partito. Ma quello di Kadare è anche un dramma che tematizza il rapporto tra cultura ed esistenza individuale. Attraverso il Kanun, Kadare mostra quanto può una cultura: una definizione capillare, precisissima, rigorosa e che non consente alcuna deviazione di tutte le azioni umane, una sorta di copione immanente al quale nulla e nessuno sfugge, un meccanismo che pesa come una maledizione da cui nessuno riesce a liberarsi. “Il Kanun era più forte di quanto sembrasse. Si trovava ovunque, strisciava per terra, ai margini dei campi, entrava nelle fondamenta delle case, nelle tombe, nelle chiese, nelle strade, nei mercati, nelle feste di matrimonio, saliva sino ai pascoli alpini, ancora più in alto, fino allo stesso cielo, per poi ridiscendere in forma di pioggia per riempire i corsi d’acqua, a causa dei quali accadeva almeno un terzo degli omicidi”. Quello di Gjorg è (anche) il dramma di chi si trova imprigionato nella sua stessa cultura. preso nella morsa di un modo di vivere che non consente scarti e che avvolge con un manto di lutto intere regioni. E’ un dramma che noi italiani conosciamo bene: e il libro di Kadare ha la stessa oscura forza e il medesimo valore di denuncia di romanzi come Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi e di opere sociologiche come Fare presto (e bene) perché si muore di Danilo Dolci.
{1} Kanun i Lekë Dukagjinit, EDFA, Tiranë 2016, p. 70.
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