Letteratura

Ishmael Reed l’incantatore – Intervista con Giorgio Rimondi

5 Ottobre 2016

Esce in questi giorni per Agenzia X un interessantissimo volume dedicato alla figura di Ishmael Reed, scrittore e intellettuale afroamericano tra i più originali degli ultimi decenni.

Il libro si intitola Il grande incantatore ed è curato da Giorgio Rimondi (studioso e autore di incredibile sensibilità, autore già di un analogo lavoro sulla figura di Amiri Baraka, ma anche del consigliatissimo Nero su bianco uscito nel 2015 per Arcana), che ha raccolto qui una serie di contributi, sullo stimolo dato dall’attribuzione a Reed del premio Alberto Dubito, conferitogli a Venezia lo scorso maggio.

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Il nucleo centrale del libro, dopo una parte introduttiva in cui si dà spazio anche alla figura di Dubito, raccoglie saggi di Franco Minganti (che affronta la questione della ricezione di Reed in Italia), Marcello Lorrai (che si concentra sulla relazione tra Reed e la musica) e dello stesso Rimondi, che dedica pagine molto intense a Mumbo Jumbo, unico romanzo di Reed tradotto in Italia, in una vicenda editoriale anche un po’ accidentata che ha trovato di recente una nuova ristampa nella collana Minimum Classics della Minimum Fax.

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Una bibliografia ragionata curata da Andrea Ravagnan precede una interessante – a maggior ragione data la scarsità di traduzioni – sezione dedicata alla produzione poetica dell’autore.

Ne emerge un ritratto il più completo possibile e stimolante, che offre molti spunti per affrontare un autore come Reed che è da sempre indefinibile e inafferrabile. A volte però il caso gioca un ruolo benevolo, come è accaduto lo scorso maggio, quando – pur non avendo potuto assistere al discorso di Reed per il conferimento del premio – mi sono imbattuto del tutto casualmente in Rimondi e Reed su un ponte di Venezia e ho potuto così scambiare due chiacchiere con loro.

Giorgio Rimondi
Giorgio Rimondi

Reed doveva partire e non c’era il tempo per un’intervista, ma con Rimondi ci eravamo ripromessi di fare una chiacchierata sui temi del libro, promessa mantenuta senza fatica e che ha condotto a questa intervista che condivido volentieri con tutti i lettori e le lettrici di Gli Stati Generali.

Per chi si interessa di letteratura afroamericana e anche di jazz, come vedremo, il nome di Ishmael Reed è di quelli di culto, ma in Italia è stato tradotto solo Mumbo Jumbo. Proviamo a dare ai lettori le coordinate principali per entrare nel mondo di questo originalissimo intellettuale: quali sono i concetti chiave e perché la sua originalità può essere anche importante per un lettore non afroamericano.
“Per comprendere come si inserisce Ishmael Reed nella cultura contemporanea bisogna tenere presente che è un intellettuale difficile da collocare. Pur appartenendo a una generazione ormai storica, per intenderci quella di Amiri Baraka, non è mai stato un militante nel senso tradizionale e, soprattutto, ha sempre mostrato grande attenzione per modalità comunicative trasversali, collegate alla televisione, al cinema, ai fumetti, alle arti visive e ovviamente al mondo di internet.
Non è certo un caso se i giovani rapper e in genere i poeti che lavorano con la musica lo hanno scelto come padre spirituale, perché la sua creatività si esprime in modo assolutamente eclettico e anche perché apprezzano la vena polemica che caratterizza la sua scrittura –  non solo quella saggistica. Ma non è casuale nemmeno il fatto che egli abbia insegnato per molti anni a Berkeley, che la sua lunga carriera sia segnata da riconoscimenti importanti e che i suoi interessi culturali abbraccino campi così diversi. Consideriamo che il suo ultimo libro è dedicato a Muhammad Ali ed è costruito in modo alquanto originale, poiché, attraverso le centinaia di interviste che ha raccolto, Reed riesce non solo a ricostruire aspetti della vita del grande pugile ma più in generale a disegnare il profilo di un’intera epoca storica. Questo mostra come la sua vena creativa sia politica in senso lato. Perciò direi che il suo atteggiamento non si riassume tanto in concetti chiave quanto piuttosto nel titolo di una raccolta di saggi, pubblicata diverso tempo fa e intitolata Writin’ is Fightin’, scrivere è combattere”.

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Ricordo di avere comprato Mumbo Jumbo (nell’edizione BUR tascabile) molti anni fa in quella libreria di seconda mano sotterranea che stava (forse c’è ancora) tra Via del Corso e Piazza Colonna a Roma e ricordo di averlo letto all’epoca con grande emozione, probabilmente non cogliendone appieno tutti i vari livelli di lettura. Perché questo libro è così centrale nella produzione di Reed?
“Come tu stesso confermi, anche se non sanno dove collocarlo i lettori italiani di Mumbo Jumbo ci mettono poco a capire che hanno tra le mani qualcosa di diverso da un semplice romanzo. D’altronde nella postfazione all’edizione italiana Franco Minganti lo spiega molto bene. Ad ogni modo, e tenendo presente che alcune delle modalità proprie di Mumbo Jumbo si ritrovano anche in altri romanzi, è vero che esso ha suscitato un grande interesse tanto nel pubblico quanto nella critica. Una prima ragione riguarda il rapporto che istituisce tra musica e scrittura. A chi gli chiede come organizzi il suo lavoro Reed infatti risponde: “Di solito prendo elementi disparati e cerco di conferire loto una certa unità. Faccio con la sintassi quello che Mingus faceva con la musica, fluidifico le asperità“. E questo avviene anche al livello della struttura narrativa e dell’ambientazione: come è noto, il libro racconta infatti la storia di Jes Grew, un misterioso e irresistibile morbo (ovviamente si tratta del jazz inventato dai neri) che partendo da New Orleans si diffonde in tutti gli States, portando lo sconcerto tra le fila degli Atonisti (bianchi) che amano la logica e il buon senso. E non bisogna dimenticare la straordinaria abilità che Reed mostra nel mescolare i generi narrativi, i tempi (storici) e gli spazi (geografici), oltre all’utilizzo di diversi caratteri tipografici, disegni e fotografie. E’ in questo modo che costruisce un mix fascinoso, surreale e senza uguali nella letteratura afroamericana, che corrisponde ai criteri di quella che lui stesso ha chiamato estetica Neo-Hoodoo”.

Quale altro lavoro di narrativa, tra i vari di Reed, pensi che sarebbe importante tradurre e pubblicare in Italia e perché? 
“Per amore di brevità, e ben sapendo che l’editoria italiana non è particolarmente attenta al tipo di operazione culturale che compie Reed, cito solo due titoli: The Last Days of Louisiana Red, un romanzo del 1974 che rivaleggia con Mumbo Jumbo quanto a sfoggio di creatività, e il saggio di cui dicevo, The Complete Muhammad Ali, che invece è del 2015. Sono due aspetti diversi ma assolutamente complementari del suo inimitabile stile”.

Il libro Il grande incantatore nasce su stimolo del premio Alberto Dubito, dedicato a un poeta prematuramente scomparso e nel volume molto spazio è dedicato alla produzione poetica di Reed, che tu definisci una poesia come “alchimia”. Perché?
“Lo spazio dedicato alla poesia era d’obbligo, in questo libro, considerando che Reed è stato invitato a Venezia per ricevere un premio di poesia, peraltro da lui molto gradito. Quanto all’alchimia, essa si collega al titolo scelto per questo volume: Il Grande incantatore. Provo a spiegarlo brevemente. Nella tradizione di pensiero che si identifica con la storia della filosofia sia il “canto” e sia l’”incantamento” che deriva (o può derivare) dall’ascolto musicale sono un tabù, poiché considerati come esperienze ambigue e pericolose. Come spiega Platone attraverso la mitologia, per il pensiero occidentale sono tabù anche gli strumenti a fiato, che inducono stati di ebbrezza non controllabili dalla ragione. Per questo, e proprio a partire da Platone, compito del filosofo è divenuto quello della coscienza vigile, della veglia, del controllo razionale; per questo, e per dirlo in una parola, quello che il filosofo persegue non è il canto ma il “disincanto”. Ora, in quanto artista afroamericano Reed disobbedisce quasi istintivamente a questi obblighi separativi, mescolando il sapere del ‘musico’, quello del fool e quello del filosofo. Nei romanzi, e a maggior ragione nelle poesie (è sufficiente leggere quelle che abbiamo antologizzato), esattamente come un mago o come un alchimista egli rimescola costantemente le carte per produrre nuove configurazioni dell’immaginario. E alla logica del disincanto, che impone di analizzare le cose, oppone il potere dell’incanto, che le fa sparire e apparire a piacimento”.

https://youtu.be/HCivUVWX9es

Lo stretto rapporto tra Reed e la musica, analizzato con precisione da Marcello Lorrai nel libro, ha trovato nel progetto Conjure diretto da Kip Hanrahan un’interessante declinazione. Cosa ti piace e cosa non ti piace, da ascoltatore, di quel progetto?
“Ci sono aspetti di questo lavoro che dal punto di vista musicale non rappresentano una scelta di avanguardia, se posso esprimermi così, e forse non hanno nulla di particolarmente memorabile. Ma in quanto espressione di un profondo spirito blues (e funky) sono tutti assolutamente godibili. Personalmente trovo travolgente il pezzo intitolato Jes Grew dell’album dell’84, costruito con temi, citazioni, stralci e altri elementi concettuali direttamente tratti da Mumbo Jumbo“.

Nel suo discorso di ringraziamento per il conferimento del premio, a Venezia, Reed indica la globalizzazione, proprio quella percorsa dai musicisti jazz, come una strategia per gli scrittori neri di oggi. Come si inserisce questo nel pensiero del Reed saggista. Dove sta la sua scomodità e originalità come pensatore nell’America nera di oggi?
“Quando dicevo prima che Reed non è un militante nel senso tradizionale, proprio a questo mi riferivo. Pur essendo un afroamericano, e pur conoscendo perfettamente le limitazioni e le discriminazioni di questa condizione anche nell’America attuale, Reed non è mai stato nazionalista, né separatista, né comunista. In questo senso la sua formazione e i suoi riferimenti culturali sono diversi da quelli di molti altri autori afroamericani. Essi spaziano dalla grande tradizione della Black Aesthetic ai romantici inglesi a Dante Alighieri, così come sono cosmopoliti i suoi interessi e internazionali i suoi rapporti. Reed è un uomo essenzialmente curioso, che ha studiato le religioni africane ma anche la lingua e le letteratura giapponese, che collabora con i musicisti, con i coreografi, con i registi (sua moglie Carla Blank è stata danzatrice ed è coreografa) e con chiunque sia sinceramente interessato allo scambio culturale. Globalizzarsi, per lui, non è un’aspirazione ma una realtà, tanto necessaria quanto naturale. Ma è pur sempre un afroamericano. E come ama ricordare lui stesso, citando George Bernard Shaw, se non sei tu a raccontare le tue storie altri lo faranno al posto tuo, ma quelle storie saranno diverse, falsificate, e finiranno per umiliarti. Per questo alla sua veneranda età (ha compiuto settantotto anni) Ishmael Reed continua a raccontare storie, senza mai dimenticare che la fonte della sua ispirazione non è l’accademia ma la strada”.

 

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