Letteratura
Io sono una pianta rampicante: poesie di Giovanni Gastel
Che le arti si richiamino e si facciano da eco vicendevolmente, è storia vecchia. Come lo è guardare con sospetto chi eccelle in una e si avvicina a un’altra.
Ma nei versi di Io sono una pianta rampicante (Silvana editoriale 2018), Giovanni Gastel dimostra di essere un artista, uno di quegli strani esseri che si svegliano e vanno a dormire in maniera un po’ diversa dagli altri.
Gastel, sublime fotografo, non ha bisogno di introduzione né spiegazione, poiché la sua eccellenza, ma direi soprattutto il suo garbo artistico e la sua raffinatezza umana, lo precedono; e infatti non scriverò nulla riguardo ciò, ma qualche parola sulle cento poesie che compongono questa raccolta vorrei, quelle sì, spenderle.
Bisogna ringraziare Gastel: ringraziarlo per l’onestà dei suoi versi. Giovanni non si mette a fare poesia, Giovanni ha la poesia fin dentro le ossa e la esprime nell’unico modo in cui sa fare; non cerca un lirismo spinto e costruito, non punta sul colpo ad effetto. Non scrive quello che non è, conscio dei suoi limiti e delle sue imperfezioni anche stilistiche o del margine di miglioramento che potrebbe esserci nella sua scrittura poetica. Giovanni si dona, dona la sua intimità, la sua visione sulle cose del mondo e la porge al lettore come un bimbo il suo primo disegno alla mamma, con speranzosa voglia e necessità di comprensione, e non per averne un plauso: Ma la mia è poesia del momento in cui vivo/degli addii/del rumore del tempo/dei ricordi che ricordo semplici e profondi/come la vita stessa.
La pianta rampicante, e diventa sempre più chiaro verso dopo verso, diparte da dentro e ricopre tutto l’esterno dell’esistenza: la malinconia di Gastel è la mia malinconia, è la malinconia di tutti coloro che vanno oltre la superficie delle cose, che si accostano all’altro sapendo di incontrare, ogni volta, un essere umano, che si lasciano affondare dalla gioia-gioia e dal dolore-dolore, perché tutto è sempre raddoppiato per intensità e volume. Così ci rampica addosso il tempo, nel suo scorrere inesorabile, e ci sposta lontani da dove vorremmo rimanere per l’eternità e ci rende i ricordi più opachi e ci fa sentire più soli, più fragili; e, contemporaneamente ci avvicina a una resa dei conti molto più terrena di quello che potremmo immaginare, ci fa muovere passi impensabili fino a un secondo prima di averli fatti; ci rampicano addosso i se e i ma, diventati rimorsi, divenuti rimpianti, oppure, talvolta, finiti per trasformarsi in un bel sole caldo che ci rimette in pace col mondo: Brilla sole sulla mia testa matta./Oggi solo serenità./La vita è una struttura fragilissima./Ma a volte viverla è bellissimo.
La poesia di Giovanni Gastel è un viaggio disarmante proprio dentro l’amore, dentro l’amore per la vita e dentro la vita stessa, più caparbia e più dolorosa di qualsiasi soluzione chimica; è una poesia talmente pura da rivelarsi profondamente autentica e quindi vera poesia che perfora, che apre gli occhi, che fa di tutto perché essi non si chiudano mai per sempre.
Da qui ora ti cerco nel tempo a ritroso
e obliquo gli occhi tra le persiane.
Ed è emozione e stupore ritrovarti
come macchia di fiori
chiusa ad arco
adolescenza mia.
Forse non mi riconosceresti neppure
smarrito amore
che porterò con me nel viaggio
fin dove nessuno potrà raggiungerci.
Ma dimmi almeno
prima di partire
se hai ancora
quel tuo vestito verde.
Niente notizie da quando sei là sotto.
Così ho passato la sera
a comporre il tuo numero
senza disperazione o speranza
meccanicamente.
Tu non rispondi
dal paradiso
o un poco più in basso.
Neppure una voce che dica:
“Lasciate un messaggio.”
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