Letteratura

“Io qui non mi trovo”. La poesia di Fernanda Romagnoli

7 Marzo 2022

Quanti anni devono passare, in Italia, perché una grande poeta venga recuperata dall’oblio, e possa ottenere la considerazione e l’ammirazione che merita, e che già le erano state negate in vita? Di Fernanda Romagnoli (Roma, 1916-1986) le piccole e raffinate edizioni pugliesi di Interno Poesia pubblicano la più ampia scelta di poesie finora mai edita, con una esaustiva prefazione di Paolo Lagazzi: La folle tentazione dell’eterno. Finora, di lei erano uscite solo quattro raccolte, ormai introvabili (Capriccio, Berretto rosso, Confiteor e Il tredicesimo invitato), che avevano suscitato l’interesse di affermati poeti come Carlo Betocchi, Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni, ma non erano riuscite a imporsi all’attenzione di un pubblico più vasto. Infine Donatella Bisutti aveva curato nel 1997 una silloge di testi inediti, Mar Rosso.

Nata in una famiglia piccoloborghese, Fernanda si era diplomata alle magistrali e poi in pianoforte all’Accademia di Santa Cecilia. Sposata con un militare di carriera, da cui ebbe l’unica figlia Caterina, per alcuni anni aveva insegnato in diverse scuole elementari, dedicandosi poi completamente alla famiglia, seguendo il marito nei trasferimenti di servizio, e tenendosi sempre ai margini del mondo letterario, in una sorta di esilio e auto-esilio determinato sia dalla sua indole riservata, sia dall’indifferenza con cui i suoi libri venivano accolti. L’inappartenenza, l’esclusione, la doppia identità sono in lei temi costanti, quasi a rimarcare la sua volontà di non aderire al teatrino dei rapporti sociali, delle relazioni fasulle, della finzione imposta per compiacere il mondo: “Grazie – ma qui che aspetto? / Io qui non mi trovo. Io fra voi / sto come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato. / E fra tutti che parlano – lui ascolta. / Fra tante risa – cerca di sorridere. / Inetto, benché arda, / a sostenere quel peso di splendori, / si sente grato se qualcuno casualmente / lo guarda. Quando in cuore / si smarrisce atterrito «Sto per piangere!» / e all’improvviso capisce / che siede un’ombra al suo posto: / che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori”.

Nelle cinquantacinque pagine del denso e colto saggio introduttivo di Paolo Lagazzi, Fernanda Romagnoli viene definita “tragica e struggente, ferita e sublime poetessa” che ha saputo trarre dai suoi versi “brucianti di amarezza, strazio e ribellione… le radici della parola sino a farne una musica misteriosamente capace di coniugare laceranti dissonanze e imprevedibili armonie, duri strappi al cuore e onde d’immensa forza espansiva”.

Se nella raccolta d’esordio, ancora modellata sull’eredità dei classici protonovecenteschi (D’Annunzio, Pascoli, Carducci), prevalevano arcaismi e preziosismi lessicali, descrizioni naturali idilliache e una religiosità di stampo devozionale, già in Berretto rosso (1965) e in Confiteor (1973) diventano evidenti sia lo stile più personale e maturo, sia i temi che hanno reso la produzione della poeta così riconoscibile ed esclusiva. In primo luogo l’aspirazione a una spiritualità libera dai canoni della cattolicità ufficiale, con il nascere di dubbi e domande relative alla giustizia divina e alla sua riconoscibilità (“Con Lui non abbiamo contatti”, “S’Egli non vuole scendere per me, / per pietà faccia dire al custode / che non darò più fastidio,/ che soltanto mi lasci abitare / – qui – seduta sul primo gradino”, “Lui / sempre più in alto si cela”, “Voi fate gran compianto per Abele, / per lo scaltro innocente, così certo / del consenso divino. / Ad un buio sudore io penso, al fiele / d’un cuore nella polvere respinto. / Io piango l’altro: Caino”, “Io sono stanca d’essere tutta pura […] // E bianca come una monaca che abiura / mi svesto di te, libertà”). Pur mantenendo un’ansia di ascesi e assoluto (“la folle tentazione dell’eterno”), altrettanto angoscianti e fondamentali si fanno gli interrogativi sulla propria esistenza, sul suo destino di moglie e madre. Costretta nei limiti della realtà quotidiana (“confitta dal limo terrestre / come uno spino”), scissa tra la fedeltà al ruolo domestico, con le abitudini imposte dalla routine casalinga – che la riduceva a vivere come una “massaia dal dito bruciacchiato”, tra “i robot smaltati di cucina”, “in una scolorita veste rossa” –, e un’insopprimibile sete di libertà e indipendenza, confessa il desiderio di evasione per saziare l’ “inappagata sete beduina”: “all’improvviso, / ecco, rinasci intatta una mattina / d’alberi e odori sopravvento […] // Ah, la tua fuga libera, a perdifiato, sotto i piedi”.

Tale profonda inquietudine non era riconducibile solo a fattori contingenti e limitanti della propria quotidianità: il timore di non saper assolvere con pienezza i doveri di moglie e madre, le pulsioni contraddittorie che la inducevano a sognare un altrove più appagante, la nostalgia di relazioni umane autentiche, la non sempre facile comunicazione con il marito (si legga l’amaro bilancio di Tirate le somme), creava in lei laceranti sensi di colpa e di fallimento: “la stigmata che in me sfolgora e dura”. Nessuna leggerezza nei suoi versi, nessuna addolcente retorica: ma spesso sferzate ironiche e autoironiche, paradossali, sprezzanti, marcate da frequenti incisi, interpunzioni, trattini e parentesi: il rispetto attento della metrica e soprattutto l’uso sapiente delle rime, rendevano comunque la sua scrittura ricca di una composta e cadenzata musicalità. Giustamente Paolo Lagazzi nella prefazione fa riferimento ad autori che possono averne influenzato l’assetto strutturale: in primis Emily Dickinson, ma anche i nostri Betocchi, Penna e Caproni, oltre alla densità concettuale dei testi sacri e dei mistici. Ma le atmosfere e gli esiti stilistici dei suoi versi rimangono assolutamente originali, soprattutto nello splendido libro-testamento Il tredicesimo invitato, del 1980.

Qui, la dissociazione dalla propria figura viene dolorosamente ribadita: “Prima o poi qualcuno lo scopre: / io sono già morta / da viva. È di donna straniera / la faccia tra i capelli in giù sporta / che subito si ritira, / l’ombra che dietro le tende / s’aggira di sera, / il passo che viene alla porta / e non apre. Suo il canto / che intriga i vicini coprendo / i miei gridi sepolti. / Qualcuno / prima o dopo lo scopre. Ma intanto… // Lei a proclamarsi non esita, / lei mostra il mio biglietto da visita. / Io nel buio, in catene, a un palmo / da voi di distanza, sul muro / graffio questa riga contorta: / testimonianza che mio / era il nome alla porta, ma il corpo / non ero io” (Falsa identità).

L’idea della morte, sua personale a causa della malattia al fegato che l’aveva debilitata per anni, e dei propri cari, come di tutti gli esseri animati e inanimati, si fa via via assidua e angosciosa, nel suo mistero inaccettabile e crudele. Mi sembra giusto dare ampio spazio ad alcune tra le poesie più belle del nostro secondo Novecento, in cui l’idea del distacco, della rinuncia al possesso e all’imposizione del proprio simulacro vivente, diventa un imperativo etico, malinconica e rassegnata accettazione della fugace transitorietà dell’esistenza.

“Morte, se vieni per condurmi via, / lascia che ombra su ombra / io ripercorra la gente. / In quest’incrocio di rotte / casuali, ci siamo incontrati / – fra vivi – così inutilmente. / Per migliaia di giorni, / ogni giorno: / all’andata, al ritorno. / Per migliaia di notti, / ogni notte, coi ginocchi, coi fiati. / Non ci siamo scambiati / niente” (Niente); “Mia madre celebrava la mattina / con un caffè solitario. / Filtravano dalla cucina / neri aromi in un chiaro di gesso. / Toccavano rumori la parete / per farsi indovinare / da me, che silenziosa / sorridevo nel buio «vi conosco!». / Mia madre la mattina / stava sola di là, come Dio / sta sulla terra e sul mare. / Prendeva il giorno nelle sue mani rosse, / assegnava alle cose il loro posto. / Come farà, che adesso / sola fatica delle sue mani è stare / incrociate sul petto” (Rito); “Tagliato in due col suo frutto / il bruco si torce, precipita / nel piatto, ove un attimo orrendo / sopravvive al suo lutto. / Coperto di bucce, sepolto / fra le dolcezze e gli aromi / che amava in vita, gli accendo / sulla catasta l’incenso / della mia sigaretta. / Morte pulita – ed in fretta. / Ma che ne so della via / che il bruco ha percorso in quell’unico / istante di agonia” (Bruco); “I piccoli oggetti, i piccoli / amici-schiavi, che tirano / troppo in lungo la vita! Miei cari, / vi licenzio in tronco. È più dura / forse per me: ma chi monco, / chi gobbo, chi spelato da lebbra; / e il mazzo di chiavi risputato / da ogni serratura. // Gli ipocriti inermi! Bisbigliano / Aiuto, pietà. / E s’uncinano a tutti gli appigli, / a tutti i ricordi come labbra / s’attaccano, come vermi. // Giù nel sacco – un tonfo – coraggio! / Non sarà un lungo viaggio. / In cantina, il bel dormitorio. / Col teatrino dei topi, il tanfo / del vino, la grata / (tarlata) del parlatorio / per la piuma, per la foglia di passo. / Tra vecchi fratelli… Diciamo / che a noi padroni va peggio, / quand’è l’ora nostra… ma adesso / muoviamoci, andiamo” (Oggetti).

 

FERNANDA ROMAGNOLI, LA FOLLE TENTAZIONE DELL’ETERNO

INTERNO POESIA, Latiano (BR), 2022, p. 320

A cura di Paolo Lagazzi e Caterina Raganella. Nota filologica di Laura Toppan e Ambra Zorat

 

 

 

 

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