Letteratura

Io & Kurt Cobain

5 Aprile 2019

Il 5 aprile 1994, 25 anni fa, moriva Kurt Cobain, che è sulla copertina dell’unico libro e l’unica cosa fiction che abbia mai scritto.Una domanda che in molti di quelli che hanno letto il libro mi hanno fatto è quanto ci sia di autobiografico. E’ una domanda che mi mette sempre in crisi: niente, mi viene da dire. Ma non è del tutto vero.
In realtà c’è una parte che è molto autobiografica. E’ una faccenda abbastanza intima e, visto che sono sempre molto imbarazzato a parlare di me, scriverla non è stato facile. Ma ormai è fatta.
Peraltro sono le pagine che hanno ispirato il mio editor e il grafico a disegnare quella bellissima copertina che ormai è un’immagine che fa parte di me. Ed è il mio modo di ricordare Kurt.
Se vi interessa il libro è qui e qui.

Sergio non aveva mai avuto un carattere metodico, aveva sempre alternato, in tutte le cose che aveva fatto, grandi slanci e momenti di terribile apatia. Dentro di sé aveva, però, il terribile demone della ricerca della perfezione. L’aveva rincorsa nella sua carriera scolastica e universitaria, la rincorreva nei rapporti umani, con la sua famiglia, con i suoi amici e con le persone che frequentava.
Sergio si era convinto, fin da piccolo, che gli altri si aspettassero da lui la perfezione e il desiderio – ovviamente irraggiungibile – di perfezione, spesso lo aveva fatto stare malissimo. C’erano stati anni nei quali, soprattutto al liceo, si era spesso cullato per lunghi periodi in questo sentimento di assoluta inadeguatezza.

Fu lì che la chitarra lo salvò dallo sprofondo. Si rinchiudeva in camera a suonare e cantare. Senza pubblico e senza cercarlo. De André, gli Oasis, gli altri cantautori italiani, Bob Dylan. E poi il cd del live dei Nirvana a MTV Unplugged che ascoltò un milione di volte e per un milione di volte suonò. Perché quegli accordi strimpellati male su un disco lo avevano fatto sentire parte di un qualcosa più grande di lui. Non era tanto per sentirsi protetto, quanto per avere la compagnia di persone che gli avrebbero voluto bene anche se sbagliava un tempo o un accordo. Persone che non pretendevano da lui la perfezione perché, nonostante tutto, perfette non erano nemmeno loro.
A furia di suonare insieme a quel disco si era piano piano ritagliato, anche musicalmente, un ruolo tutto suo, sul quale era libero di cambiare o improvvisare. Faceva una specie di terza chitarra che ogni pomeriggio cercava di far andare d’accordo con quelle di Kurt Cobain e Pat Smear, che negli ultimi concerti dei Nirvana si era aggregato per dare un po’ più di corpo al suono. E ogni tanto aggiungeva cori e controcanti.

Sergio si era salvato da quei brutti mesi d’inverno, vissuti in un paese di campagna lontano dalla città, con pochi amici e tanto studio, perché grazie a quel disco si era illuso di sentirsi utile a quei ragazzi americani, almeno quanto loro erano utili a lui. Erano diventati amici, anche se non avevano mai parlato e non si erano mai visti. Ma mentre suonava e azzardava il controcanto della sua voce a quella di Kurt, gli sembrava di incontrare gli sguardi dei musicisti di quella che era diventata anche la sua band. C’erano gli occhi dolci e gentili di Dave che gli sorridevano per dargli l’attacco di un pezzo. «Hey Sergio, sono felice che tu sia qui a suonare con noi». C’erano quelli un po’ spiritati di Krist che ogni volta gli dicevano: «Stiamo andando alla grandissima, ci stiamo divertendo un casino». C’erano quelli un po’ severi di Pat che gli avevano dato confidenza e amicizia dopo un po’ di tempo, ma che piano piano gli avevano dato un affetto sincero: «Stai diventando bravino, brutto stronzetto». E poi c’era anche Lori, la ragazza col violoncello. Che anche se non era bellissima in quel momento sembrava
una dea.

Infine c’era Kurt, che ovviamente era quello a cui voleva più bene, ma che era anche il più sfuggente e il più enigmatico.
«Perché Kurt, cazzo, ti sei sparato?».
«E ti giuro che non ho una pistola».
«Ma perché? Poteva esserci una soluzione? Una soluzione si trova sempre, no?».
«Cos’altro potrei essere? Queste sono tutte scuse».
«Ma tu adesso sei morto. E noi non potremo mai suonare insieme per davvero».
«Io mi voglio bene meglio di te. So che è sbagliato, ma cosa ci dovrei fare?».

Poi lo guardava con quegli occhi profondissimi e rassicuranti. Perché lui era morto e nessuno avrebbe potuto davvero farci più niente. O forse sì. Ma ormai era andata. Non restava che continuare a portare avanti quel concerto. Che, tanto, quel piccolo gruppo ci sarebbe sempre stato. Bastava prendere la chitarra, metter su il cd e premere play.

E grazie a quel concerto si poteva trovare compagnia. Perché finché non si smette di suonare non si può morire. E più si ha voglia di suonare, più la morte si allontana.

Sergio, nella sua carriera da musicista, aveva suonato con altri due gruppi, ma quello dell’MTV Unplugged in New York, ogni tanto, quando ce n’era bisogno, tornava a riunirsi. I vecchi amici si rivedevano, si scambiavano pacche sulle spalle e si rimettevano a suonare quel disco. E il pensiero della morte tornava ad allontanarsi.

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