Letteratura
“Io e il generale: da Milano a Srebrenica passando per il Tunnel”
Sergio Pilu è uno “scrittore non di mestiere, ma viaggiatore pressoché professionista”, secondo le parole di Michele Gravino (Il Venerdì di Repubblica, 10 aprile 2020). Autore del blog Squonk, di recente ha pubblicato due libri, tratti da due viaggi particolari: Zona di alienazione: Chernobyl, una mattina d’estate (SirLib, 2019) e Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia (SirLib, 2020). Ho avuto occasione di chiacchierare con lui del libro dedicato al viaggio in Bosnia, che ci ha portato a parlare di Sarajevo e Srebrenica, del turismo e della guerra, del presente e del passato, delle verità che non abbiamo e delle nostre nonne, che abbiamo entrambi ritrovato lungo il corso del fiume Drina.
Ciao Sergio, “Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia” è un libro che ci porta a Sarajevo, a Srebrenica e lungo diverse strade del piccolo Paese balcanico. Cosa ti ha spinto ad andare in Bosnia-Erzegovina e perché hai pensato di scrivere questo libro?
Come spesso succede, non c’è un solo motivo. Ho iniziato a frequentare per motivi di lavoro quella che chiamiamo ex Jugoslavia dal 2007 e da allora non mi sono più fermato: Slovenia, Croazia, Serbia, Bulgaria, Albania, Kosovo, Macedonia del Nord: potrei dirti che mi mancava la bandierina in Bosnia. Poi, ho da sempre una passione per tutto quello che ha a che fare con l’Europa ex comunista, e di questa la Jugoslavia è una parte importante anche se molto diversa da quella che stava sotto il Patto di Varsavia. E infine ho una passione anche per i posti segnati da tragedie, guerre, devastazioni: so che suona morboso e non posso escludere che lo sia, alla base di questi viaggi sta un coacervo di motivi non tutti nobili che vanno dal voler toccare con mano ciò che di quelle tragedie è rimasto al vantarsi con amici e conoscenti passando per il fatto incontestabile che la gente quando vede un incidente in autostrada si ferma a guardare, o almeno rallenta. Non sono partito né per Chernobyl né per Sarajevo con l’idea di scrivere un libro, ma quando sono tornato ci ho provato, perché sono storie che non possono non essere raccontate anche se lo hanno già fatto in tanti.
Questa passione per posti contrassegnati da un passato tragico è anche un modo di guardare questi luoghi. Il turismo ci mostra come possano essere diversi i modi di guardare, e quindi di visitare, un posto. E questi modi dipendono da noi che guardiamo, ma anche da chi incontriamo e dal luogo che visitiamo. A Sarajevo tu hai avuto una guida particolare, Mustafa, un uomo che da giovane lì ha combattuto, ha studiato e ha vissuto. Hai incontrato una città che non nasconde le proprie ferite, a volte inscritte nel suo tessuto urbano, e l’hai guardata con un occhio attento. In che modo Sarajevo e Mustafa hanno condizionato l’immagine di questa città ai tuoi occhi e secondo te sarebbe stato possibile visitarla in un modo diverso da quello legato al tragico recente passato?
Sarebbe stato possibile? Certamente sì, visto che le vie della Baščaršija erano piene e al Tunnel saremo stati in tutto una cinquantina: ognuno ha il suo modo di girare, le sue curiosità, i suoi obiettivi e quindi, posto che abbia voglia di cercarli, finisce per trovare i suoi luoghi. E ovviamente girare da soli o in compagnia, andare a Srebrenica con un ragazzo che nel 1995 non era ancora nato o fermarsi sul ciglio di una strada osservando la postazione di un cecchino grazie agli occhi di un uomo che iniziò a combattere all’età di diciassette anni continuando per i successivi quattro cambia il modo in cui vedi le cose. Ti direi di più: cambia le cose che vedi. La realtà è che quasi tutto quello che Mustafa mi ha detto e mostrato (o non detto e nascosto) l’ho capito bene, o comunque meglio, solo qualche mese dopo, una volta tornato a casa, quando ho provato a rimettere insieme tutti i mattoncini raccolti in quei giorni.
Il tuo sguardo è il motore di questo libro e una presenza insistente che esso vede sono i cimiteri, spesso attaccati alle case, quasi, come dici, a rappresentare un’idea della morte quale parte integrante della vita quotidiana, da non allontanare ma con cui convivere. Il più importante di questi cimiteri è quello di Kovači, dove riposa Alija Izetbegović, l’uomo che ha guidato i bognacchi (i bosniaci di religione musulmana) prima, attraverso e dopo la guerra degli anni Novanta. Durante la tua visita al cimitero hai incontrato un gruppo di studenti e un professore che porgevano i loro omaggi a Izetbegović. Si tratta di un momento che ci svela e al contempo ci nasconde qualcosa sulla Sarajevo di oggi e sul suo rapporto con il recente passato.
Beh, prima di tutto fammi premettere che, anche se è vero che io, dove posso, vado a visitare i cimiteri locali perché penso che come vengono trattati i morti dice molto dei vivi, a Sarajevo, anche volendo è complicato evitarli: un po’ perché, come mi hanno spiegato, i musulmani bosniaci amavano costruirli ben dentro le zone abitate e quindi renderli parte della vita quotidiana (e infatti su tante stele è inciso un verso meraviglioso del Corano, che recita “E non dire di quelli che sono morti sulla via di Allah: ‘sono morti’. No, sono vivi ma tu non lo senti”), un po’ perché la guerra ha fatto tante di quelle vittime che era impossibile non costruirli o allargarli. Quell’ora trascorsa a Kovači di cui parli per me è il condensato del mio viaggio: a più di un anno di distanza non so ancora dirti che cosa ho davvero visto guardando quei ragazzi cantare, su invito del professore, un inno funebre in memoria del vecchio presidente e padre della patria: se un sereno e normale tentativo di far toccare con mano a qualche decina di sedicenni un pezzo della storia recente del loro paese o un esercizio di indottrinamento che finisce per rafforzare, non so quanto involontariamente, le divisioni etniche e religiose. Avrei voluto poter parlare con qualcuno di loro, ma dubito che mi avrebbero mai detto la verità, semmai ne esiste una.
La verità spesso ci sfugge, come quella sulla figura di Jovan Divjak, ex generale dell’esercito della Bosnia-Erzegovina, che rispondeva a Izetbegović. Nel 1992, all’inizio dell’assedio di Sarajevo, Divjak, di etnia serba, ha deciso di lasciare l’esercito jugoslavo e unirsi alla difesa della città. Per questo oggi è venerato come un santo da molti cittadini di Sarajevo. Tu hai avuto occasione di incontrarlo, sei stato trascinato dall’entusiasmo della gente, hai anche una fotografia insieme a lui, che però non è piaciuta proprio a tutti…
È stato un momento quasi surreale. Avevo letto molto su Divjak e in quel momento lui per me era una specie di eroe per proprietà transitiva, una specie di “l’amico dei miei amici è anche mio amico”. Ero sinceramente emozionato quando me l’hanno presentato, e per stringergli la mano ho dovuto fare la coda visto che non riusciva a muovere un passo senza essere fermato da qualcuno che, venticinque anni dopo il suo pensionamento forzato, lo fermava per dirgli grazie e toccargli un braccio o una spalla come se quel signore in camicia azzurra fosse la reliquia vivente di se stesso. Qualche settimana dopo mi hanno raccontato che una conoscente, serba di nascita, aveva visto la foto di me a fianco del generale senza riuscire a nascondere una sorta di disgusto perché quell’uomo per molti serbi è un traditore e criminale di guerra. Che è una cosa che io, in tutta sincerità, sulla base di tutto ciò che sono riuscito a sapere su di lui non credo sia vera: ma non posso nemmeno pensare che un uomo che ricopriva il suo ruolo in quella condizione specifica non abbia fatto e ordinato di fare una serie di cose magari anche ripugnanti. Insomma, non mi vergogno di quella foto e anzi la tengo come un ricordo caro, ma al tempo stesso so che Jovan Divjak è un buon simbolo di quel grumo di dignità e orrore che è la guerra, o almeno immagino che sia.
È difficile trovare delle classificazioni rigide. Da una parte c’è il rischio di creare una contrapposizione artificiale e falsa tra “buoni” e “cattivi”, ma dall’altra c’è il rischio di relativizzare il tutto e pareggiare le responsabilità di aggressori e aggrediti. Dall’equilibrio fra i due poli dipende una buona parte della convivenza futura in Bosnia-Erzegovina. Pensi sia possibile risolvere con successo questa contraddizione?
Onestamente non so se possiamo “risolvere con successo”, so che ci dovremmo provare se non altro per rispetto verso noi stessi. È una cosa sulla quale ho pensato parecchio: so bene che poche delle cose che si vedono in Bosnia sono quel che sembrano (e lo stesso può essere detto per parecchi altri posti: ho avuto la stessa sensazione in Ucraina oppure in certi bar frequentati da sostenitori dell’ETA a San Sebastian), quindi il compito di provare a capire andando al di là degli stereotipi, tenendosene il più possibile a distanza, è particolarmente difficile. Ma va affrontato, anche a costo di essere spiacevoli. Per intenderci, è chiaro – basta leggere le cronache – che bosgnacchi, croati e serbi non possono essere tutti incasellati e marchiati come buoni gli uni e cattivi gli altri: la lista delle porcherie e aberrazioni di cui si sono resi colpevoli i primi, che nel nostro (o almeno nel mio) immaginario sono i buoni e le vittime è fin troppo lunga, così come è nutrita quella delle gesta eroiche o quanto meno umanamente dignitose dei secondi e dei terzi, i cattivi. Ciò nonostante, se prendo i miei cinque minuti con Jovan Divjak come piccolissimo esempio di quel che voglio dire, continuo a pensare di aver incontrato e stretto la mano a un uomo che, con tutti gli errori e le azioni sporche alle quali ti può costringere la guerra, ha scelto la parte giusta: o meglio, la parte della giustizia, che ovviamente non è la stessa cosa.
Restando su questo tema, è inevitabile oggi toccare il tema del negazionismo rispetto ad alcuni fatti della guerra, in netta e preoccupante crescita negli ultimi anni. Sappiamo che il governo della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina, ha più volte tentato di ridimensionare o negare il genocidio di Srebrenica. Altri sono andati persino fino ad additare i responsabili dello stesso come eroi. Tu sei stato a Srebrenica, condotto da una giovane guida e in compagnia di altri due turisti olandesi, e nel libro ne parli. Com’è stata questa visita?
È difficile condensare in poche parole questa risposta: come sai nel libro ho dedicato a quel giorno parecchie pagine. La cosa migliore che posso fare è riportarti alcune immagini. La prima è quella delle migliaia di stele bianche che splendono sotto il sole di agosto: non so se qualche volta è capitato anche a te, ma a Potočari, dove si trova il memoriale delle vittime di Srebrenica, ho provato ancora una volta la sensazione straniante data dal fatto che sotto un cielo blu e un sole splendente qualsiasi posto può essere bello: mi è capitato ad Auschwitz, a Chernobyl, a Omaha Beach e quella sensazione, che a me provoca anche una sorta di imbarazzo misto a vergogna e senso di colpa l’ho provata anche lì, nei profondi Balcani. La seconda immagine è invece quella del buio umido della fabbrica di batterie che fu il quartier generale del contingente olandese e intorno alla quale i soldati di Mladic fecero la selezione tra donne, bambini e uomini da mandare a morte; ho attraversato quei padiglioni insieme a Marcel, un loro connazionale (per un bizzarro volere del caso, a sua volta un militare) che non sono riuscito a non considerare come un colpevole a distanza, rappresentante della stessa ignavia dei caschi blu che non fecero nemmeno quel poco che erano autorizzati a fare per difendere i civili inermi. La terza è quella dello stomaco chiuso nel caldo feroce delle due del pomeriggio, in piedi nel parcheggio dove migliaia di persone erano state condannate a morte o separate per sempre dai propri cari, davanti a una statua nella quale mesi dopo mi è sembrato di riconoscere la Ma Joad del “Furore” di Steinbeck.
Molto interessante la figura di questo distratto turista, che ci riporta alle tristi corresponsabilità dei caschi blu olandesi e della NATO, che hanno contribuito a permettere un genocidio in Europa negli anni Novanta del Novecento. È un tema con cui l’Olanda, e non solo, sta cercando da anni di fare i conti. Quale pensi sia il migliore modo per fare questo?
Dino, io sono un turista che ha letto tutti i libri che ha potuto e ha cercato di tenere gli occhi aperti durante i suoi viaggi. Questo che tu sollevi è un tema spinoso rispetto al quale mi sento in imbarazzo nel prendere posizione per mia manifesta pochezza: sono tutto tranne che un esperto, ecco. Comunque: onestamente non so se esiste un modo “migliore”, ma mi piace credere nella giustizia riparativa, la restorative justice, quella che si basa sul riconoscimento da parte dell’autore del crimine che ha compiuto, su una sua azione concreta che, per quanto possibile, coinvolge la vittima e i soggetti a questa vicina per rimediare ai danni che il suo crimine ha prodotto e, in sostanza, sulla ricerca di una soluzione che nasce dal dialogo tra vittima e carnefice. E’ un processo che si basa su una serie di presupposti che molto difficilmente si realizzano tutti insieme: in Olanda il fare i conti con la propria presenza in Bosnia ha provocato ferite che hanno fatto cadere governi e spaccato il paese tra chi pensa che i suoi rappresentanti militari si sono comportati al meglio data la situazione e chi ritiene che quegli stessi rappresentanti hanno sulla coscienza la complicità nello sterminio di migliaia di persone. E immagino di non aver bisogno di ricordare come ci sia ancora mezza Bosnia che guarda ai suoi condannati per genocidio come a degli eroi, il che non è esattamente un buon punto di partenza per un processo di giustizia e pacificazione.
Tornando al libro e al viaggio di ritorno da Srebrenica, vicino al fiume Drina incontriamo la Baba Safa, un’anziana signora che vive da sola. Emergono qui in particolare anche i tuoi ricordi personali e sembra ci sia un ponte fra questa signora, forse così lontana da te nelle cose che ha vissuto, e la figura di tua nonna. È un ritratto bellissimo, che ha fatto scattare questa connessione anche in me, come se in questa vecchia signora tutti potessimo riconoscere una figura familiare, anche lontano da casa.
La Baba è un pezzetto di cuore rimasto lì. Una donna che avrebbe il diritto di essere incattivita col mondo dopo essere stata cacciata dalla sua casa a colpi di mortaio e costretta alla vita da profuga, una donna che ritorna e si ritrova a rivivere i fatti che trent’anni prima le hanno cambiato definitivamente la vita e che, ciò nonostante, apre la porta della sua casa a stranieri sconosciuti solo perché portati dal suo nipote acquisito. Le mie nonne erano così, l’ospitalità gratuita, che non chiede nulla in cambio, splendente nella sua dignità e modestia, era un cardine del loro modo di stare al mondo. La vorrei rivedere, la Baba, e sapere che sta bene.
È incredibile come certi brevi incontri ci segnino in modo importante sul lato affettivo. La Baba Safa, con un trascorso di vita tragico e importante, è però una nonna come tante in Bosnia. È una cosa triste da dire ma la sua storia è molto più comune di quanto possa sembrare. È anche la storia della mia bisnonna, che poi è il volto che io ho dato nella mia mente alla Baba Safa. Torniamo così ancora una volta al passato, agli anni bui della guerra, che sembrano sempre dietro l’angolo, pronti a ripresentarsi nel presente: basta un incidente in un ristorante…
Sì, basta che due macchine cariche di nazionalisti passino il confine sulla Drina per andare a terrorizzare le famiglie che stanno trascorrendo una domenica pomeriggio in riva al lago sventolando bandiere e urlando slogan cetnici per ripiombare nel passato, anche se lontani dalle luci dei riflettori. Basta che alle finestre del municipio di East Sarajevo vengano appese le gigantografie di Ratko Mladic per essere messi di fronte a una domanda semplice e difficilissima: basta non massacrarsi con le armi per vivere in pace, per “essere” in pace?
Questi episodi ci mostrano una società in cui le tensioni sono ancora molto forti e la guerra prosegue, senza armi, su un piano politico e simbolico, forse non meno distruttivo di quello della guerra armata. In tutto questo, però, resta una bellezza e una dolcezza che si può ancora respirare pienamente…
Sì, è così. In questa nostra chiacchierata abbiamo parlato tanto di guerra, in varie forme. Tanto ma non troppo, credo e spero, perché quello è un totem con il quale, purtroppo, non possiamo non continuare a fare i conti. E però, se mi chiedi un’immagine che porto dentro ti dico quella della città vista dalla cima di Sagrdžije, una delle mille strade che scendono a picco verso il fiume: in quel punto la vedi tutta, vedi moschee e chiese e sinagoghe, vedi uomini e donne, vedi le colline, vedi i cimiteri e il bazar, vedi una dolcezza struggente nella quale ti sciogli e grazie alla quale speri che non tutto sia perso.
(L’immagine di copertina e tutte le altre immagini presenti nel testo sono state realizzate da Sergio Pilu.)
Devi fare login per commentare
Accedi