Geopolitica
Intervista a Magris: «L’informazione di oggi: così potente, così fallimentare»
L’ultimo romanzo di Claudio Magris, Non luogo a procedere è un intenso navigare a vista in quel gorgo estremo e sempre più liminare che è il contemporaneo. Un romanzo attraversato da un impasto linguistico denso eppure elastico, capace di costruire immagini straordinariamente forti e audaci; disegno di un mondo in perenne stato d’occupazione. Claudio Magris parla con rapidità e discreta fuggevolezza, ma senza mai lasciar cadere alcuna parola che anzi rimbalza sul suo viso dando forma a scuotimento e a gioia, a tensione e a lieta leggerezza. Il dialogo sovrasta, ma con dolcezza gli argomenti sviluppandoli ritmicamente: si salta con eleganza tra i temi del romanzo e quelli dell’attualità, tra la letteratura e la politica. L’urgenza del dire non è carica d’ansia, semmai di necessità di precisione e di analitica chiarezza.
Il dialogo scorre lieto nonostante l’inquietante incedere di un tempo terribilmente attratto da una guerra che pare perenne. Claudio Magris padroneggia una singolare leggerezza, diversa anche da quella tanto celebrata di Italo Calvino, perché in Magris tutto è spiritualmente più terreno, fattuale e pratico. “Intanto cammina: certamente arriverai” gli scriveva Biagio Marin nel febbraio del 1960 (Claudio Magris, Ti devo tanto di ciò che sono. Carteggio con Biagio Marin, Garzanti) e in questo incoraggiamento che Magris ha certamente fatto suo, si cela probabilmente il senso di una vitalità che è una vera e propria messa in pratica, un’ostinata opera di fiducia nella sostanza delle cose. Una religiosa convinzione a cui Claudio Magris non si è mai sotratto: non alla letteratura, ma alla vita e per la vita vale il gioco.
Nel suo ultimo intenso e vorticoso romanzo, Non luogo a procedere (Garzanti), lei mette al centro due temi fondamentali: l’archivio e la guerra. L’utopia del museo della guerra è anche l’utopia di una guerra che sia comprensibile alla ragione?
Anzitutto grazie per questi aggettivi “intenso e vorticoso”, che naturalmente mi fanno molto, molto piacere e che spero di meritare. Non credo che quell’utopia del Museo della guerra sia l’utopia di una guerra comprensibile alla ragione. Nelle intenzioni del museologo – come pure in quelle del personaggio reale cui mi sono ispirato – il museo avrebbe dovuto mostrare la terribilità della guerra e quindi indurre alla pace. O essere quasi una specie di raccolta di tutte le armi del mondo, in modo che non ne restassero più altre da poter usare per la distruzione. Un’utopia che rasenta la follia e che si mescola, in un certo sincero desiderio di pace, a una affascinata ossessione per la guerra in tutte le sue forme, anche nel mondo animale e vegetale, anche nei microorganismi del nostro corpo e così via.
L’impossibilità dell’archivio oggi ormai deflagrato e sparso in ogni ambito della vita come modifica la percezione e la costruzione di una memoria comune?
Credo che l’archivio impossibile sia una sorta di affastellamento di tutte le armi possibili o meglio di tutto ciò che ha a che fare con la guerra, ogni oggetto messo accanto all’altro, abolendo per così dire il tempo e togliendo in qualche modo senso alla successione, alla Storia e quindi, in un certo modo, anche alla memoria. Tantissime memorie, perché ogni singolo oggetto ne porta e ne svela tante, che escono dall’oggetto, per così dire, come le figure e le storie dalla lampada di Aladino quando veniva strofinata. Ma queste memorie tutte accanto all’altra finiscono per essere una sorta di delirio che rende difficile una ragionevole, razionale, storica memoria comune. Questa memoria totale, contemporanea, frantumata e accatastata rende difficile proprio quella memoria armoniosa, selettiva, ricca di pietas e non vendicativa, che dovrebbe essere la memoria vera. Naturalmente io spero che, raccontando questa storia, si possa far emergere e quindi in qualche modo salvare proprio questo senso autentico della memoria.
La tecnologia sembra aver mutato oltre che la forma della guerra anche la sua stessa percezione rendendola lontana e inesistente anche quando è fortemente presente. La pace da reale diviene allora solo una forma di limbo? Uno spazio più di percezione che di presenza?
Noi abbiamo sempre più la sensazione di vivere in una guerra continua, dovunque intorno a noi. Stiamo vivendo, come ho scritto più volte, una vera e propria quarta guerra mondiale, dopo la fine della terza, cosiddetta fredda e in realtà rovente, vinta dall’Occidente con 45 milioni di morti, caduti, per nostra egoistica fortuna, non nei nostri paesi. Oggi c’è una guerra di tutti contro tutti, ma non si sa di chi contro chi ed è questo il suo pericolo maggiore. Questo crea anche una sorta di corto circuito fra realtà e irrealtà, guerra che c’è dappertutto e che sembra non esserci mai, informazione tecnologicamente formidabile ma fallimentare, perché ad esempio della guerra nell’Afghanistan, che sta durando tre volte la seconda guerra mondiale, ne sappiamo concretamente, nonostante i mezzi eccezionali d’informazione, meno di quanto ne sapevano un secolo e più fa i lettori che leggevano le corrispondenze di Kipling.
Il suo romanzo vive tra una totalità utopica e il frantumarsi di un linguaggio vorticoso e avviluppato ad una memoria riccamente stratificata. Quale tipo di letteratura è possibile in un mondo che ha trasformato la distanza in una forma di sbriciolamento periglioso e confuso?
Le sono molto grato per questa definizione, la tensione fra la totalità utopica e il frantumarsi di un linguaggio vorticoso. Credo che questa domanda tocchi l’essenziale della problematica del narrare così come si pone da circa un secolo. Oggi nel raccontare il come deve corrispondere al cosa, non si può raccontare in modo armonioso una storia di sfacelo e di disordine. A partire dalla grande stagione sperimentale novecentesca non si può raccontare se non rischiando il naufragio o naufragando nel suo mare sconvolto, nel maelström della storia contemporanea che frantuma o altera il rapporto con il tempo e con la materia del racconto stesso, il rapporto fra romanzo e Storia, tra scrivere Storia e scrivere storie, tra raccontare la realtà e inventarla. History as Novel, Novel as History, scrive Norman Mailer. La distruzione della concezione lineare del tempo e l’eclissi di un significato centrale, di un senso capace di infondere unità e razionalità agli eventi individuali e collettivi hanno sconvolto il rapporto tra le storie e la Storia, fra il racconto delle une e il racconto dell’altra. Un romanzo autentico del nostro tempo non può rappresentare la Storia se non come l’incubo di cui parlava Stephen Dedalus o come la serie sconnessa di frammenti disgregati nel Tamburo di latta di Grass.
Il grande – o anche medio o piccolo – romanziere dell’Ottocento poteva integrare la vicenda di un individuo nella totalità della Storia. Il narratore ottocentesco poteva pure usare la stessa lingua e lo stesso lo stile nei suoi romanzi e nei suoi scritti morali o politici. La scrittura e la lingua dei Miserabili di Victor Hugo non sono troppo diverse da quelle delle sue polemiche contro Napoleone III. Kafka, invece, non avrebbe potuto scrivere un messaggio di solidarietà ai minatori della Slesia con il linguaggio della Metamorfosi. Raffaele La Capria ha detto che i grandi romanzi del Novecento sono “capolavori falliti”. Con queste parole egli non intendeva certo negare o limitare la grandezza di Kafka, Joyce, Svevo, Musil o Faulkner, ma voleva dire che quei capolavori avevano dovuto assumere in se stessi, nelle loro stesse strutture narrative, il fallimento del tentativo di cogliere la totalità unitaria e razionale del mondo e della Storia, l’impossibilità di un’epica armoniosa e ordinata, in cui l’individuo avverte il senso delle cose e della vita.
La guerra sembra porsi come paradigma di una socialità ormai sempre filtrata dalla tecnologia: i droni in guerra, i social nelle relazioni quotidiane. Il passato è quindi l’unico luogo solido su cui è possibile costruire un’identità? Questa ossessione del passato non rischia di trasformare la memoria in una pietra inscalfibile utile solo ai fondamentalismi di turno?
Certamente bisogna distinguere la memoria come custodia dell’esistenza e del presente di ogni valore e di ogni esistenza dalla memoria ossessiva, irrigidita e vendicativa. Io credo sia doveroso avere memoria delle vittime, perché altrimenti si arrecherebbe loro un’ulteriore violenza. Tutto ciò che ha valore, in primo luogo la persona, è sempre collocata in un eterno presente; io parlo sempre delle persone, anche morte, al presente, come dico che Dante è un poeta e non che lo era, come se non lo fosse più. Ma questa è una memoria che arricchisce la vita e il presente e che si proietta nel futuro; del tutto diversa è la memoria ossessionata dal passato, che presenta sempre il conto delle violenze subite ai discendenti di chi le hanno inflitte, perpetuando così quei rancori e quelle tensioni che hanno generato quelle tragedie. La memoria può essere una formidabile arma contro il fondamentalismo oppure una terribile arma del fondamentalismo stesso, una Medusa che irrigidisce.
In questo raggomitolarsi dei tempi il presente sembra essere un ingombrante assente. Il presente è oggi un tempo incomprensibile? Quali le conseguenze?
No, direi che il presente è proprio questo raggomitolarsi dei tempi in cui tutto diventa presente, viene vissuto al presente. Certo, oggi il presente è difficilmente comprensibile, tutto si mescola in una sorta di melassa che miscela tutto e il contrario di tutto e che accetta tutto tranne ciò che mette in discussione il sistema e la mentalità dominante. Questo è un falso presente, contrapposto a quel presente che è Kairos, il tempo pieno di significato, l’ora pervasa dall’eterno.
L’Europa è ormai un pallido ricordo di quella immaginata da Altiero Spinelli? Cosa resta di quell’idea?
Mai come oggi l’Unione Europea è apparsa in difficoltà, un’entità eterogenea ed elefantiaca. Non posso rispondere in una breve dichiarazione a questo problema estremamente complesso. Io sono un patriota europeo e sogno il momento in cui avremo un Stato europeo, decentrato e federale ma con un Parlamento che voti leggi cogenti per tutti. Uno Stato con una sua politica unitaria, in cui gli attuali Stati diventino quello che sono oggi le Regioni nei singoli Stati. Bisognerebbe abolire in ogni settore il principio di unanimità, che non è democrazia bensì il suo contrario, perché la (falsa) unanimità è un prodotto e un inganno delle dittature. Non è ammissibile che esistano, all’interno dell’Unione Europea, paesi che abbiano costituzioni in realtà inconciliabili con quella europea. Forse bisognava prima costruire un preciso Stato europeo secondo gli ideali di Spinelli e degli altri padri fondatori e poi accogliere, in questo stato già formato, tutti gli altri che volessero farne parte. Non già rinunciando alla propria peculiarità ma inserendola in una più grande.
Nel suo romanzo si rincorrono ricordi intimi e memoria comune, esiste ancora spazio oggi per una memoria comune? Quale la sua necessità?
Oggi ci troviamo davanti a una grande contraddizione. Da un lato si cerca di costruire una memoria comune e l’informazione, almeno superficiale, porta tante cose, tante realtà che vengono ad arricchire la nostra realtà e la nostra identità particolari. Ma questa memoria contemporaneamente sta venendo sgretolata dalle febbri identitarie, dagli egoismi locali (dove per locali si intende anche, talvolta, qualche Stato). Certamente una memoria comune è necessaria, perché la memoria è il fondamento di ogni identità. Un’identità europea deve essere naturalmente articolata; una matrioska che ne contiene altre in modo armonioso, così come la mia identità triestina è compresa in modo armonioso in quell’italiana e io la sento compresa in quella europea. Ma tutto ciò sembra purtroppo esistere sempre meno, essere sempre più in pericolo.
Quale autore oggi sarebbe necessario rileggere più di ogni altro secondo lei?
Non credo esista un autore che si debba leggere e rileggere più di un altro. Grazie a Dio nella letteratura e direi, cosa ancora più importante, nella nostra coscienza e in quella corale e collettiva della nostra civiltà, ci sono molte dimore come, sta scritto nel Vangelo, nella Casa del Padre. Leggere i grandi classici, i grandi aruspici della lacerazione contemporanea, ma anche classici lontani del tempo e dello spazio.
Cosa le ha dato la letteratura e nel caso cosa le ha tolto?
Impossibile rispondere a questa domanda con poche battute, ci vorrebbe un libro. Ho cercato di farlo nel primo capitolo del mio libro Alfabeti (Garzanti). Una volta, mentre presentavo la traduzione cinese di un libro nell’Università di Xi’an, una studentessa mi ha chiesto: “cosa si perde scrivendo?” Ardua domanda kafkiana, che esigerebbe una lunga risposta, che a suo tempo naturalmente le ho dato, e a più riprese. La letteratura è come la lancia di Achille, che guariva e feriva. Forse la letteratura, per poter ritrarre la vita, deve porsi al di fuori della vita, perdendo quindi la sua calda immediatezza; un tema che ha ossessionato e fatto anche soffrire Thomas Mann. Esiste poi anche un egotismo letterario, che sacrifica la vita alla letteratura, uccidendo così quest’ultima, perché quest’ultima è o dovrebbe essere al servizio della vita. In questo senso la letteratura può dare tanto; può far capire a sentire anche ciò che non sperimenteremo mai direttamente e personalmente, ma che diventa, grazie alla letteratura, altrettanto nostro. Ci fa sentire l’unità del mondo e dell’umanità nella varietà delle sue manifestazioni; ci induce a metterci nel cuore e nella testa e nei panni di indimenticabili personaggi ossia ci insegna a metterci nei panni degli altri, ciò che costituisce un grandissimo valore, non solo dell’esperienza letteraria ma, cosa ancor più importante, della vita e, direi, della democrazia stessa.
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