Letteratura
Incombe su di noi un processo come quello del signor K.?
Seppi de “Il processo“ di Kafka guardando, giovanissimo, la versione cinematografica del romanzo. Del film di Orson Welles, con Anthony Perkins (il celebre protagonista di “Psyco” di Alfred Hitchcock) avvertii sin da subito la presenza di significati allegorici che, tuttavia, tra sequenze apparentemente realistiche, ma dai risvolti assurdi, non riuscii a ben interpretare come avrei voluto.
Quando, più tardi, in età matura, mi sono immerso con un certo gusto nell’angoscia della fredda e abissale prosa kafkiana, ho colto qualche nesso tra la prospettiva surreale di quelle pagine e l’incresciosa condizione umana. E sono giunto alla conclusione, del tutto personale e forse visionaria, che il signor K., a ben guardare, potesse avere la colpa, paradossale quanto si vuole, di non avere colpe. Pertanto, da un certo punto in poi, ho smesso di avere una certa apprensione nei suoi riguardi, e ho continuato la lettura del romanzo simpatizzando con le tesi indecifrabili e vaghe di chi lo aveva messo sotto processo senza specificarne il motivo. Ecco, quando mi è stato stranamente chiaro che il signor K. fosse del tutto innocente e vittima di un cervellotico incubo, mi sono trasformato in un lettore che vedeva nella irreprensibile condotta del protagonista l’origine di una persecuzione volta ad affermare un astrattismo complesso, reputando l’autore, Franz Kafka, uno scrittore unico e immenso, che sapeva comunicare in maniera sbalorditiva le sue inquietudini. In altre parole, la narrazione mi ha portato fuori dalla sua delirante trama, rimandandomi alla bravura del narratore.
Tessere una sorta di labirinto onirico, opprimente e fastidioso, intorno alla certezza di innocenza del signor K., fino a farlo vacillare, risucchiandolo nel dubbio della sua stessa rettitudine, è un ricamo autorale di grande effetto e finezza. Non vederne l’estetica, soffermandosi più del dovuto sulle speculazioni filosofiche inerenti al vuoto, all’incomunicabilità e a tutto quanto concerne la stramaledetta e fottutissima trepidazione dell’uomo, vuol dire disconoscere la bellezza della letteratura in quanto tale, per adagiarla e piegarla alle esigenze manieristiche dell’approfondimento sociologico. La letteratura, per quanto mi riguarda, è un campo di ricerca estetica e psicologico. Non tenerne conto, allargando in maniera esagerata i suoi confini, potrebbe snaturarla oltre misura e, quel che è peggio, con dei contenuti poco adeguati al lavoro di questo o quell’autore, dandone un’immagine alterata e distorta. E se Kafka fosse soltanto un fantasioso giocherellone ad alto contenuto estetico e psicologico, e non lo scrittore quasi inaccessibile di cui si è scritto e parlato per decenni? Perché propendere per l’idea secondo cui un grande scrittore debba essere per forza elitario, complicato, non per tutti?
“Qualcuno doveva aver denunziato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.” Così inizia “Il processo”. Parafrasando, aggiungo: “Qualcuno deve aver stravolto la lettura del romanzo di Kafka, perché senza che contenga inafferrabili congetture, viene presentato come pesante e faticoso. Invece, la distinta e perforante vis ironica di Kafka potrebbe aiutarci a interpretare meglio la contemporaneità. Sempre più spesso, infatti, una costante e assurda incomprensione di fondo, chiusa alla gentilezza e alla solidarietà, contamina le relazioni, finendo per mettere sotto giudizio (processo) gli altri, che potrebbero restare sorpresi alla stessa maniera del signor K. Rileggere “Il processo”, lasciandosi attraversare da quella letteratura, potrebbe essere un ottimo esercizio per educarsi all’amore, all’empatia, alla comprensione del prossimo: sentimenti non riposti nei confronti del protagonista del romanzo.
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