Letteratura

In Libreria “Questione di Merito”: l’intervista di Origlia a Cottarelli

5 Marzo 2020

Pubblichiamo, per gentile concessione editoriale, un estratto dell’ottavo capitolo del volume curato da Maria Cristina Origlia, “Questione di merito”, Edizioni Guerini e associati, 2020, pp. 224. Il libro è da oggi in tutte le librerie.

Non posso esimermi dall’iniziare la conversazione con una battuta sull’uomo che sta dietro uno degli economisti oggi più conosciuti dai cittadini italiani, grazie alle numerose presenze televisive. Molto si sa delle sue competenze, poco della sua persona. La domanda lo coglie impreparato. «Boh, trovo molto difficile descrivermi come persona». Poi aggiunge con candore: «A me sembra semplicemente di essere una persona abbastanza normale, cerco di parlare con buon senso, mi danno fastidio i giri di parole, gli arzigogoli, la formalità. Questo senza scadere nell’opposto, nella trascuratezza, nella maleducazione. La giusta via di mezzo è quello che ci vuole».

Questa volta ad essere impreparata sono io. Non si è abituati a toni così umili in Italia e ne deduco che ha fatto bene ad andarsene negli Stati Uniti. Qui sarebbe stato difficile mantenere questo approccio e fare la stessa carriera… Ma lui non è d’accordo: «No, credo che sarebbe stato lo stesso. Peraltro, il Fmi è piuttosto pomposa come organizzazione. Gli ultimi tre anni, poi, come direttore esecutivo del board con tutte quelle riunioni e quei discorsi sempre uguali e infiniti… sono stati pesanti. Avevo un sacco di tempo libero, un mucchio di soldi, ma mi annoiavo a morte. L’avversione verso la formalità non è una cosa che ho imparato negli Stati Uniti. Per me l’autenticità e la semplificazione sono genetiche». Un certo anticonformismo, che lo accompagna sin da quando era giovane, racconta. «Non seguivo i luoghi comuni, facevo sempre il contrario di quello che faceva la maggioranza. Nel ’68 sono arrivato al liceo, in quegli an ni c’erano scioperi continui e occupazione, a me non andava di uniformarmi alla massa dei dimostranti. Io andavo sempre in aula. Eravamo in tre… Insomma, un bastian contrario. Non è neanche una cosa tanto bella…». In effetti, non è difficile scorgere in lui quel ragazzino caparbio, deciso a sfidare la prevedibile reazione inflitta dai compagni.

«Essere contro» ha significato scegliere l’impegno, anche se Cottarelli sostiene di aver iniziato a studiare davvero seriamente solo dall’ultimo anno del liceo. «Negli anni precedenti ero un bravo studente ma non il primo della classe, poi invece sono diventato il migliore e mi sono diplomato al classico con 59. In occasione dell’esame di maturità mi sono accorto che il mio cervello riusciva ad assorbire molte informazioni – mi stupisco che riesca a farlo ancora oggi! – e da lì in poi, all’università, ho studiato tanto».

La curiosità per l’economia è nata in casa, sfogliando i libri del padre, in cui si divertiva a scoprire come si determinano i prezzi, come si forma la domanda… insomma, segnali inequivocabili di una certa attitudine. A Siena, poi, per frequentare la facoltà di Scienze bancarie ed economiche, ci è arrivato per un paio di ragioni storiche. Intanto, si trattava di una facoltà appena nata su ispirazione del modello anglosassone e, allora, assai foraggiata dal Monte dei Paschi. Poi «mio padre voleva allontanarmi da Milano, all’epoca iniziava il periodo delle Brigate
Rosse… Fui l’unico a fare quella scelta, i miei compagni andarono tutti a Milano, Torino, Pavia, Parma. All’inizio è stato un po’ uno shock, poi sono stato salvato da un gruppo di sardi, che mi hanno insegnato una serie di parolacce isolane con cui tener testa ai toscani. E tutto si è risolto per il meglio».

La prima esperienza a Londra, invece, è stata frutto del caso. Il professore con cui si era laureato gli consigliò di andare in Gran Bretagna a fare ricerca. Senza tante spiegazioni, gli scrisse un biglietto da presentare a un certo professor Bliss di Oxford. E così, con quel bigliettino in mano, Cottarelli si presentò nella prestigiosa università inglese a metà agosto del ’78… e Bliss cadde dalle nuvole: le candidature andavano presentate a febbraio, non in piena estate! Era già pronto a tornar sene in Italia, quando venne a sapere che alla London School of Economics c’era la possibilità di fare il r search free student. «Un anno di ricerca con un supervisor, che non controllava se e cosa facevi davvero. Devo ammettere che è stato un periodo di autentico divertimento, anche se ho fatto una ricerca sulla politica fiscale per il Tesoro del governo inglese. Solo dopo il servizio militare, già dipendente della Banca d’Italia, sono tornato a Londra a fare un master come si deve».

È in Banca d’Italia, dove ha lavorato per sei anni al Servizio Studi, che ha consolidato la sua preparazione e gettato le basi della sua ascesa professionale. Allora, c’era Ignazio Visco, che è stato un maestro soprattutto per l’econometria – ricorda Cottarelli –, ma ce n’erano tanti di maestri. Era il miglior dipartimento di economia applicata d’Italia. «Il governatore in quel periodo era Fazio e mi disse: ‘Lei diventerà il miglior esperto della tale materia e, quando avranno bisogno, chiameranno lei’. Aveva ragione, ma io volevo vedere il mondo». In pochi avrebbero lasciato per loro volontà quel luogo di carriera certa e di prestigio unico qual era (ed è) la banca centrale del paese. All’Eni, dove andò a ricoprire il ruolo di responsabile della parte economica del Servizio Studi, aveva appena iniziato ad ampliare i suoi orizzonti, «quando – dopo pochi mesi – mi sono reso conto che non avevano bisogno di un macroeconomista… insomma, avevo troppo poco da fare! E non andava bene neppure così! Ho iniziato a guardarmi intorno, quando inaspettatamente il Fondo Monetario Internazionale mi ha contattato». Un ex collega della Banca d’Italia, Stefano Micossi, capo del dipartimento internazionale, aveva ricevuto la richiesta di segnalare qualcuno per il Fondo e aveva fatto il suo nome. È volato a Lisbona per sostenere il colloquio. Andò bene e partì alla volta di Washington.
Al Fmi, Cottarelli ha trovato le condizioni ideali per lui. Lo descrive, senza enfasi ma con occhi brillanti d’orgoglio, come un organismo internazionale (e quindi in grado di rispondere alla sua curiosità intellettuale), con un clima collegiale e non competitivo all’interno (perfetto per la sua ambizione misurata), dove vieni valutato ogni anno in base alla performance, da cui dipende l’avanzamento di carriera (coerente con il suo modus pensandi razionale ed efficiente). Ha iniziato occupandosi dell’Italia e del Portogallo e poi ha lavorato in tanti dipartimenti diversi, appagando il suo bisogno di dinamicità. «Ma il momento più gratificante – mi spiega sorridente
– è stato quello della promozione a capo del Dipartimento di finanza pubblica, che si occupa delle condizioni finanziarie dei paesi, perché ne ho completamente cambiato l’organizzazione. Prima era un dipartimento molto centralizzato, io l’ho semplificato al massimo, delegando il potere decisionale ai capi divisione, senza imporre continue riunioni per autorizzarli a procedere. E, poi, ho dato loro la possibilità di cercare risorse finanziarie all’esterno, presso donors e fonti di vario genere. In questo modo, abbiamo raddoppiato l’offerta dei servizi che potevamo proporre e da 150 persone siamo diventati 250». In linguaggio manageriale si direbbe una leadership collettiva, osservo. Ma le definizioni non gli piacciono e snocciola subito una serie di attività realizzate, le uniche che contano per lui. «Fin dall’inizio ho fissato degli obiettivi verso cui tutti dovevamo lavorare. Ad esempio, la pubblicazione del Fiscal Monitor, unico documento al mondo focalizzato sulla finanza pubblica dei paesi aderenti al Fmi. Ma anche iniziative goliardiche come la Global Stability Cup, un campionato di calcio che ha avuto
un forte impatto sulla vita sociale del Fmi. Peccato che il mio dipartimento l’abbia vinto proprio quando me ne sono andato!». Per la verità, nei trent’anni trascorsi al servizio del Fondo, ci sono stati momenti ben più delicati che si è trovato ad affrontare, di cui non ama fare sfoggio. Forse il più critico in assoluto – ricorda – è stata una riforma all’interno del Fmi, sulle regole con cui opera il fondo per la sorveglianza sulle politiche dei tassi di cambio, che implicava forti tensioni con la Cina. E, poi, la crisi turca. Un Paese che negli anni Novanta ha visto succedersi nove governi di coalizione e che nel 2001 si ritrovò con un tasso d’inflazione oltre il 50% e con un debito pari al 78% del Pil. «All’inizio, il programma del Fmi non ha funzionato bene perché c’erano poche risorse… sono stato quaranta giorni di fila nel paese e a un certo punto mi hanno dato anche una scorta, perché sembrava che ci fosse un gruppo terroristico che mi aveva preso di mira. Mah, mi sembrava una preoccupazione eccessiva, ma non posso negare che sia stato un periodo molto duro», riconosce.

Per ragioni diverse anche l’Italia non mi pare che sia stata una passeggiata. Con una certa ritrosia, ammette che sì, «in termini di pressione, i primi sei mesi da commissario straordinario alla Spending Review sono stati estremamente impegnativi. Ma io volevo tornare in Italia, mi mancava. Quando sono andato a Washington avevo idea di rimanerci due o tre anni non di più, poi sono arrivati i figli e siamo rimasti lì. Ma io non mi sono mai integrato negli Stati Uniti. Non è la mia cultura, non mi interessa nulla del football americano, del baseball, del basket… A me interessa il calcio, interessa la musica italiana, quella di Battisti, Guccini. Ora sono un fanatico di Gabbani, che trovo geniale e che ho avuto l’occasione di conoscere, dopo aver insistito non poco affinché Fazio lo invitasse in trasmissione mentre c’ero anch’io! Dei cantanti americani, cosa devo dirle… Springsteen lo ascolto un pochino, ma non mi dà la stessa emozione. E così anche per la stampa e la tv: negli Usa ho sempre letto i giornali italiani e, per fortuna, una tv locale mandava in registrata, domenica pomeriggio, Novantesimo minuto. Imperdibile!».
Devo essere sincera, non me l’aspettavo una confessione del genere. Il motivo per cui è rimasto è stata la carriera, ma anche – se non di più – la moglie, che ha sempre apprezzato l’America (lavora per la Banca Mondiale) a dispetto dell’Italia. «Già dopo il master alla Lse – London School of Economics, dove ci siamo conosciuti, lei è rimasta in Inghilterra per conseguire il PhD. Nel nostro paese, non si trovava bene. Ora potrebbe tornare, ma al momento viviamo tra una sponda e l’altra dell’Atlantico». Quando gli faccio notare che forse ha giocato anche il fatto che l’Italia non era (e non è neppure oggi) un Paese per donne, e con un PhD è pure peggio, si stupisce. Non ha mai riflettuto su questo punto. «Non so, non saprei. Certamente pesa molto a favore degli Usa il fatto che possiamo vivere in un bosco, immersi nel silenzio della natura, pur lavorando a Washington. E, poi, mia moglie apprezza molto vivere in un ambiente ordinato. L’aspetto lavorativo non l’ha mai nominato. In effetti, però, devo dire che, sia da commissario straordinario sia da direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici, mi è capitato di entrare in riunioni con quaranta persone, di cui una sola era donna. Questa è una cosa impensabile in America…». Curioso che non ci avesse pensato prima.

In ogni caso, in Italia ci è tornato da solo. Pensavo che fosse stato «convocato» e invece no, è stato lui – mi rivela – a contattare il governo italiano, durante la presidenza Monti, tramite la Banca d’Italia a cui aveva segnalato la sua disponibilità a un rientro nel Paese d’origine. Ma è stato Fabrizio Saccomanni, che conosceva personalmente, a chiamarlo quando è diventato ministro dell’Economia e della Finanza del governo Letta. «In realtà, io pensavo di rientrare come capo dell’Ufficio parlamentare di Bilancio. E, invece, mi hanno chiesto se volevo fare il commissario straordinario. Ci ho pensato un po’, devo dire… Poi, ho accettato e, assieme allo staff che mi hanno affidato, abbiamo lavorato con un certo qual risultato, a differenza di quel mastodontico insieme dei venticinque gruppi di lavoro del Ministero, che alla fine non ha prodotto quasi nulla». La sua voce tradisce lo sconforto di chi, forse per la prima volta nella sua vita, non ha potuto portare a termine il suo lavoro come avrebbe voluto. «All’inizio è stata dura, infatti il fisico ne ha risentito», ricorda impensierendosi. Ma anche dopo, nonostante i risultati ottenuti, le cose non sono andate come dovevano. Eppure, sostiene che sapeva esattamente cosa l’aspettava in quel ruolo. «Non è stata una sorpresa. Molti sostengono che ho avuto più collaborazione rispetto a chi mi aveva preceduto, ad esempio Bondi. Poi con il governo Renzi, a un certo punto, mi sono reso conto che non avevo il suo appoggio. Non avendo il potere di firma, l’unica cosa che potevo fare era formulare consigli e suggerimenti, ma Renzi non mi si filava… Avevamo visioni politiche diverse: io volevo fare certe cose e lui altre. Ho avuto l’impressione che non volesse sostenere delle iniziative antipopolari e, infatti, ne ha fatte diverse popolari. Dai famosi 80 euro, ad esempio, all’Imu sulla prima casa o ai 500 euro ai diciottenni. E, in generale, voleva portare il deficit pubblico al 2,9% per cinque anni. Insomma, non puoi fare il commissario se non hai le stesse idee del Presidente del Consiglio!». A coglierlo impreparato, invece, è stata la chiamata al Colle da parte del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Era uscito qualcosa sui giornali, ma – poco incline a dar seguito alle chiacchiere – gli era sembrata una cosa campata in aria. Oltretutto, in quelle settimane sembrava che si formasse un governo tecnico e che si sarebbe dato l’incarico ad Elisabetta Belloni (allora segretario generale del ministero degli Esteri). Poi la cosa era sfumata. «Ma quando è risultato evidente che Mattarella e Conte non avevano raggiunto un accordo, ero certo che tornasse fuori il nome della Belloni. E, poi, quando ho visto sul cellulare un certo numero di Roma… ho capito. Ho chiamato subito dopo mia moglie. Era chiaro che le vacanze erano rovinate».

Non nega che gli sarebbe piaciuto accettare quella sfida: «Beh, quando ti chiama un Presidente per affidarti il Paese da portare alle elezioni, non puoi che esserne orgoglioso. Come minimo, lo metti nel cv!». Poi, quando si è scatenata la campagna elettorale in cui si è tornati a parlare di euro, con Grillo che perorava l’opportunità di uscirne e lo spread è salito di 100 punti base in un solo giorno, si è subito reso conto che non sarebbe stato possibile gestire una situazione del genere senza l’appoggio delle principiali forze politiche in campo. «Bisognava trovare un compromesso e così, trattando con Di Maio e Salvini, si è arrivati a una soluzione. E io ho tirato un bel respiro di sollievo. Purtroppo, non c’erano le condizioni. Senza maggioranza parlamentare non si può fare nulla. Non esiste un governo tecnico. Monti, nonostante le dietrologie insensate che l’hanno dipinto come espressione della finanza internazionale, ce l’aveva: l’hanno votato tutti, tranne la Lega. Se le cose stanno così, allora formare un governo rimane una bella fatica ma ha senso, perché si può provare a fare certe cose…».

Ad esempio, secondo Cottarelli (e non solo lui), l’Italia ha bisogno di diventare più competitiva. Negli ultimi vent’anni, pur difendendoci, abbiamo perso molta della nostra capacità di esportare. La sua ricetta parte dalla riduzione dei costi per le imprese e dalla semplificazione della burocrazia a cui sono sottoposte. E poi, segue subito dopo la necessità di far funzionare la giustizia civile, abbassare le tasse, mettere i corrotti in galera ecc. A ridurre le tasse ci hanno provato in tanti o, almeno, l’hanno promesso in campagna elettorale, ma non pare essere cosa così semplice…

La risposta di Cottarelli è drastica (siamo entrati nel suo territorio): «Certo, per ridurre le spese e abbassare le tasse, bisogna rinunciare a delle cose, che la gente è abituata ad avere gratis! Ad esempio, secondo me, è stato un errore modificare la riforma Fornero. Anche al Fmi, a mio parere bisognerebbe alzare la soglia della pensione e aumentare la penalità per chi sceglie di andarci prima, anche solo per una questione di immagine. Io sono andato in pensione a cinquantanove anni pagando una modesta penalità… In generale, bisogna evitare l’aumento della spesa per pensioni/Pil nel tempo, cosa che la riforma Fornero e le altre hanno cercato di fare».

Come è un errore introdurre il Reddito di cittadinanza (che non è sbagliato in sé) in un Paese dove il rapporto tra Rdc e il reddito pro capite è il sesto più alto in Europa! Inoltre, perché il Reddito di cittadinanza deve essere uguale in tutta Italia, quando al Sud il costo della vita è più basso del 30% rispetto al Nord? Non ha senso. E, ancora, bisogna vedere se questa macchina gigantesca dei facilitatori (i cosiddetti navigator) funzionerà. «In ogni caso, resta il fatto che in un Paese con un debito pubblico così alto, queste cose non le puoi fare! Se andiamo in crisi e il debito pubblico aumenta rapidamente, spendere di più non è una buona idea. Ma anche questa volta sono in minoranza: la maggior parte degli italiani è d’accordo con la misura del Reddito di cittadinanza». E non solo loro, a dire il vero. La maggior parte dei suoi colleghi economisti è contro le misure del governo gialloverde e quindi anche contro il Reddito di cittadinanza, ma con tanti distinguo. E non usa, ancora una volta, mezzi termini Cottarelli, aggiungendo che «molti non condividono le scelte di politica economica, ma non lo dicono, non vogliono firmare appelli e, così facendo, non ci mettono la faccia. Preferiscono rimanere chiusi nei loro studi e tra i loro libri. Io, invece, trovo che sia necessario parlare con la gente, andare in televisione, anche se significa essere criticati e attaccati. Per questo faccio il lavoro di predicatore, così come mi diverte definirlo. È molto pesante, ma non mi annoio!».

Su questo non c’è dubbio. E non si annoia neppure il pubblico a vederlo duellare da una trasmissione all’altra in difesa della verità dei numeri (quelli reali) e del loro significato per tutelare il futuro del paese. È questo, del resto, il proposito dell’Osservatorio sui Conti Pubblici, che ha creato tre anni fa, pur di rimanere in Italia. L’idea gli è venuta – come spesso capita, confessa – copiando ciò che già c’era. In particolare, l’organizzazione no-profit e indipendente, con sede a Washington, Committee for a Responsible Federal Budget, che in Italia non esisteva e che aveva senso istituire proprio per creare una cultura della finanza pubblica nel Paese.

«Lo scopo dell’Osservatorio è fare analisi e dare informazioni sul debito pubblico, sulla spesa pubblica, che è necessaria ma deve essere efficiente, che non esiste – in sostanza – un pranzo gratis! E la parte di divulgazione è fondamentale per far comprendere a tutti l’impatto di una buona o cattiva gestione della cassa statale sulle nostre vite e su quelle delle prossime generazioni. Ecco perché frequento così tanto gli studi televisivi». Su questo fronte, deve dire grazie ai suoi ricercatori, che, seppur con riverenza, gli hanno fatto notare che alcuni termini non andavano usati o, perlomeno, andavano spiegati. Un esempio? L’espressione «avanzo primario», che nelle prime incursioni televisive usava con disinvoltura, è stata bandita. «Avevano ragione…», riconosce sogghignando.

Quando passiamo a parlare dei risultati raggiunti sin qui dal lavoro dell’Osservatorio, la sua voce assume un tono duro e il suo viso tradisce un senso di frustrazione. In termini di output, grazie proprio all’attenzione mediatica e soprattutto alla presenza settimanale nel programma Che tempo che fa di Fabio Fazio, si dice soddisfatto. In effetti, ha raggiunto una popolarità che pochi altri economisti hanno mai avuto in Italia. E ha svolto un «servizio pubblico» di inconfutabile utilità. «In termini di outcomes, invece, non mi sembra che la nostra linea di pensiero sia particolarmente ben vista. Del resto, esprimiamo una visione del funzionamento dell’economia completamente diversa da quella che ha il governo, che pensa che lo Stato possa manovrare e spostare soldi a destra e a manca, spendere senza riserve pensando che tanto gli italiani saranno sempre disposti a mettere mano ai loro portafogli. È una visione di breve termine, condizionata da risultati elettorali. Io – rivendica – sono uno che tende ad avere una visione di lungo periodo».

Ed è proprio per questo che la sua analisi si fa buia riflettendo sugli effetti delle attuali scelte politiche nei prossimi due-tre anni. «Se siamo fortunati, non ci saranno crisi, ma noi non andremo particolarmente bene. Se siamo sfortunati, avremo un’altra crisi come quella del 2012, con l’aggravante di un debito pubblico più alto e banche forse più capitalizzate, ma con molte sofferenze. E poi, la gente è stanca. Alla terza crisi, non si sa quale reazione potrebbe avere. Insomma, io speriamo che me la cavo». Nei suoi libri l’ha scritto chiaramente: se non ci liberiamo da illusioni e false credenze, non riusciremo mai a innescare un cambiamento. Il declino del paese non è un destino ineluttabile, dipende dalla nostra capacità di guardare la situazione con lucidità e iniziare a disinnescare cattive abitudini, a partire dalla gestione della spesa pubblica. Solo così potremo permetterci di ridurre i costi per le imprese e recuperare competitività. L’Europa e l’euro non c’entrano nulla, anzi sono – per quanto non perfetti – la nostra unica via di salvezza.

A questo proposito, una domanda sul mea culpa del presidente (ormai past president) della Commissione Europea, Juncker, sulla Grecia, è d’uopo, E lui non ha peli sulla lingua nel rispondere che «si è dimostrato un cretino. Se era sincero, erano lacrime di coccodrillo. Non si può dopo cinque anni dire ‘mi ero sbagliato’! E poi non è vero che la sua decisione era stata dettata dal Fmi». Il Fondo voleva un avanzo primario dell’1,5% del Pil. L’Europa del 3,5%, quindi molto più restrittivo, ed è andata avanti su quella strada, non ascoltando il Fmi. Il Fondo
non vuole l’austerità, è l’Europa che vuole i soldi indietro, commenta. «Allora, se vogliamo essere solidali, perché l’Italia non decide di abbonare il debito greco verso il Paese, che ammonta a 45 miliardi? La verità è che noi vogliamo fare solidarietà senza fare sacrifici, e allora andiamo a prendere soldi a prestito, che poi ci costeranno in interessi». Dimenticandoci di quanto peserà sulle prossime generazioni.

A proposito di giovani, tutti se ne riempiono la bocca, ma nessuno li considera davvero. «Il fatto è che ai politici non conviene parlare ai giovani, semplicemente sono troppo pochi per pesare in qualità di elettori. Oggi i ventenni sono circa cinquecentomila, i sessantenni sono circa un milione. Il politico di breve termine fa misure politiche per conquistare il consenso di un milione di persone, non della metà». In effetti, il ragionamento non fa una piega. In un paese, i giovani contano di più se sono di più. In Italia il calo demografico è stato impressionante. La dimensione totale della popolazione è la stessa, ma i giovani sono la metà! «È tutta una questione di numeri
– aggiunge laconico. – E, a parte l’attenzione dei politici, l’aumento dell’aspettativa di vita associata al crollo della natalità sta generando effetti devastanti sui conti pubblici (abbiamo un livello di spesa per pensioni tra i più alti del mondo) e preoccupanti sulla produttività, perché diminuiscono le persone in età lavorativa. Il fattore immigrazione, se ben gestito, potrebbe offrire una soluzione».

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