Letteratura

In Calabria sulle tracce di Giuseppe Berto

30 Gennaio 2016

Appena la vidi seppi che quella terra, dalla quale si scorgevano magiche isole, era la mia seconda terra, e qui son venuto a vivere. Sto su un promontorio alto sul mare, è un panorama stupendo. E quando il giorno, dalla punta del mio promontorio, guardo gli scogli e le spiaggette cento metri sotto il mare limpidissimo che si fa subito blu profondo, so di trovarmi in uno dei luoghi più belli della terra”. Giuseppe Berto, “Il male oscuro”.

Ho trascorso molte estati, non ricordo più quante ma sicuramente più di sette e meno di dieci a Capo Vaticano in Calabria sull’onda dell’emozione  per la lettura del romanzo di Giuseppe Berto Il male oscuro. La località da me prescelta, la più vicina ai luoghi ove Berto trovò infine requie  al suo dolore di vivere,  fu Ricadi, delle cui tre frazioni Santa Maria, Santa Domenica e San Nicolò  scelsi quest’ultima perché negli anni ’90 del secolo/millennio scorsi ero un campeggiatore squattrinato. Un campeggiatore super attrezzato tuttavia: tenda a casetta (Bertoni -Viale Fulvio Testi Milano), materassini gonfiabili, gas, mini -frigo, ogni comfort, diciamo così, in quelle condizioni robinsoniane. Ma con pochi denari mi garantivo tre  a volte quattro settimane piene di sole e di mare  in un campeggio minuscolo, immerso nella macchia mediterranea che gettava sulla riva di  un  mare profumato  e pescoso  – il «Costa Verde»  gestito dal sabaudo liberale  sig. Terzuolo,  conversatore brillante e saputo.   Ero allora, e lo dico senza falsa modestia,  un grande pescatore di polpi,  e le secche di quel mare favoloso   furono generosamente riconoscenti al mio fair play di pescatore disarmato, a mani nude e in apnea, con polpi superiori a un chilo di peso: uscivo spesso dall’acqua con il fiatone della lotta sottomarina  e con qualche graffio sanguinolente per aver strappato con forza  la preda annidata nelle sue tane di rocce taglienti.

In quegli anni avevo litigato furiosamente con la terra natale, la Sicilia,  nella quale non volevo più tornare a causa delle delusioni profonde, politiche, etiche, estetiche  che mi aveva procurato, giovane appena poco più che ventenne,  a causa della sua incompletezza civile, la sua ignoranza, la sua miseria al quadrato che è la miseria di non aver coscienza della propria miseria,  la sua superbia gattopardesca che non ammetteva critiche, mende, soccorrevole sociologia, partecipata antropologia, amichevole filosofia, infermeria politica. Niente: l’incarognimento nel  male oscuro dell’arretratezza,  l’incistamento nel  dolore individuale e collettivo ma anche la protervia del rifiuto della cura, della mia cura, seguita dall’indicazione a me rivolta  della via di uscita, il calcio in culo di  estromissione da una società coi giochi fatti per pochi fin dalla nascita a chi non aveva adeguata nascita.

Se non la Sicilia, il Mezzogiorno con tutte le sue caratteristiche c’era tutto però negli odori e nei colori, nella luce e nel paesaggio, compreso lo stile «abusivo»  architettonico, le facciate grezze delle case, gli spuntoni di ferro dei pilastri, le cancellate lasciate a minio dei balconi. Testimonianza del baratto tra politica, voti, e fatevi i cazzi vostri che noi ci facciamo i nostri. Ma il mare era quello di Andrea Cambria di Horcynus Orca, era quello del timoniere di Enea, Palinuro, di Odisseo.  A quello tornavo dopotutto per snebbiarmi dai lunghi inverni padani che soffrivo nell’intimo ma che accoglievo con tutto il senso mistico del cilicio di una necessaria espiazione. Se avevo scelto la civiltà a posto della natura, dalla natura dovevo trascendere. Ma al mare no,  non sapevo, non so, rinunciare.

Il libro di Berto era giunto tra le mie mani non so come. Il lettore onnivoro e randagio che sei a volte veniva ricompensato da scoperte luminose che poi ti accompagnano come in sogno  lungo il corso di tutta la vita.  Un libro bellissimo. Era un romanzo duro, risentito, contro il mondo, la terra natia, il dolce Veneto (Berto era nativo di Mogliano) contro Moravia, e si chiudeva, in pagine indimenticabili, toccanti per forza interiore e serenità raggiunta, dopo gli sversamenti di bile del male oscuro,  a Capo Vaticano, nella casa proprio in cima allo sperone di roccia, vicino al faro, da dove si spalanca un paesaggio di una bellezza incantata, unico e incomparabile nella sua immensa  vastità  di mare che di lontano si infrange sulla costa o che si sperde in sfumati  orizzonti equorei,   là dove il mare  è più mare.

Quelle parole di Berto in finale di romanzo erano le mie, le sentivo come sgorganti dal mio petto:

 «L’isola degli aranci sta dall’altra parte celeste e gialla e un poco verde nella sua breve lontananza, e in mezzo c’è un piccolo tratto di mare proprio piccolo ma non ho il coraggio di passarlo, padre non ho coraggio, (…) e del resto non tutti coloro che volevano la terra promessa poterono giungervi, non tutti furono degni della sua stabile perfezione, e così verso sera cerco un posto da dove si possa guardare la Sicilia, di notte l’altra costa è una lunghissima distesa di lampadine con segnali rossi e bianchi (…) ecco qui mi costruirò con le mie mani un rifugio di pietre e penso che in conclusione questo potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte»

Ecco: come Berto avevo solo  il presagio della Sicilia, non la Sicilia, e non volli varcare lo Stretto, rincagnato nella mia rabbia di escluso, di litigante rancoroso.  Mi ammaliava e mi addolciva gli spasmi interiori per mimesi catartica, nel romanzo,  lo stile dell’affabulazione.  Il male oscuro riprende una locuzione di Gadda a indicare, con una formula che da allora non s’è più staccata da esso,  il male della depressione, o di quello stato di malessere psichico profondo che chiamiamo con un termine riassuntivo depressione. Gadda  accompagnò con una benevola prefazione questo grande romanzo dell’Io, che dal punto di vista redazionale è un lunghissimo, trascinante, emozionante fiotto di parole, senza punteggiatura, senza ripartizioni, senza respiro e che lascia senza respiro, per la rabbia  interiore che trasmette, lo squasso del malessere in atto, lo sbocco di bile, di risentimento, di dolore puro che fuoriesce, esonda, tracima dalle pagine. Il più grande lamento dell’Io del nostro panorama letterario. Un libro che non ha pari nella seconda metà del nostro Novecento letterario, per semplicità di ideazione,  per energia stilistica, forza di persuasione,  potenza di effetto. Ora potrei aggiungere che il libro quando uscì, era il 1964, si avvantaggiava di alcune suggestioni  letterarie del momento. Il romanzo di Joyce Ulisse era appena uscito nella prima traduzione italiana di Giulio De Angelis (1960), entrava allora ufficialmente nella nostra letteratura, anche se intellettuali italiani più che avvertiti come Montale o Moravia  – che Berto odiava e che nel romanzo è uno degli espliciti  bersagli del suo rancore di scrittore-, l’avevano letto già negli anni Trenta. Nei fatti, gli anni Sessanta sono gli anni di Joyce: La Capria tentava le tecniche nuove con Ferito a morte, Umberto Eco esercitava su questo libro tomistico le sue prime prove critiche di semiologo sagace, Berto ne suggeva qualche ispirazione. Insomma quel romanzo e la tecnica del flusso di coscienza  erano entrati nella vita molecolare della scrittura forse senza un disegno esplicito di imitazione, per spontanea mimesi: erano nell’aria.

***

Le mie vacanze trascorrevano serene tra mare cristallino, caldo secco, polpi a volontà, e la sera a contemplare, immerso in una brezza dolce e profumata, i sontuosi tramonti dietro Vulcano al largo davanti a noi. Talvolta si andava a godere della piccante e robusta cucina calabrese al Pipireju, una trattoria che era nomen omen. Anche qui pare che ci fosse la mano di Berto. Si narrava che il nome  del locale fosse stato scelto da lui. Ma proprio sul peperoncino lessi una di quelle estati un libro delizioso di Vito Teti  ( Il peperoncino – Un americano nel Mediterraneo,  Monteleone, Vibo Valentia, 1998, ora Donzelli  2007), su cui scrissi qualche anno dopo sul settimanale “Avvenimenti” queste righe.

Se «l’uomo è ciò che mangia» come affermava Feuerbach, il calabrese sarebbe senz’altro un peperoncino, aggiungerebbe prontamente Vito Teti. C’è infatti in questo libro – davvero sapido e mordace come la pianta alimentare al quale è dedicato – una linea retta che collega un edule prodotto della terra alla terra che lo produce, la Calabria, e agli uomini che la abitano, i calabresi.

Chiunque sia stato in quella terra, anche da turista – e chi scrive c’è stato per molte indimenticabili stagioni frequentando locali dal nome, neanche a dirlo, il Pipireju (il  Peperoncino), che dalla lettura del libro si apprende essere stato aperto niente di meno che dal grande Giuseppe Berto -, chi è stato in quella terra dicevo, aspra, incompiuta, bella, sa perfettamente il rapporto davvero “folle” che lega il peperoncino ai calabresi.

Teti ci dà in questo brillante saggio una possibile spiegazione di questa follia e lo fa conducendo l’esame di questo legame sul versante della storia e dell’antropologia alimentare, assegnando alla pianta il compito di testimonial, si direbbe, dell’identità dei calabresi, della calabresità addirittura.

Ci sono in questo studio momenti di pura elegia in cui il peperoncino funziona da pungente madeleine, un elemento della terra natale capace di evocare tutto un mondo di affetti e di movenze interiori. Ma questo elemento psicologico individuale, dell’autore, si stempera e si allarga in una serrata, colta, ben scritta analisi -raramente s’incontra un italiano saggistico così impeccabile –  delle ragioni di natura demopsicologica della fortuna che ha incontrato una pianta alimentare americana in una regione così “altra” de Mediterraneo.

Piace poi il tono asciutto ed equilibrato del libro, l’assenza di enfasi e di mitizzazione che spesso irretisce i più allocchiti cantori del paese natìo. Da qui la presa di distanza dal “nuovo folklore”, delle magnificazioni amplificate e autocelebrative, da pro loco,  totalmente estranee a chi invece ha un rapporto sincero, tenace e consapevole con la propria terra.

Ora,  il cerchio si chiude:  di recente ho letto un passo di Vito Teti  rivolto  alla Calabria e  che io prenderei in prestito per la Sicilia: « C’è una cappa mediatica e un’Opa identitaria angusta sulla Calabria. Te ne accorgi quando vai fuori,  in Italia e all’estero, e provi un senso di sollievo, misto ad amarezza, nel non leggere commenti, riflessioni, retoriche identitarie che affossano la nostra regione, ne annullano il senso critico, un vero e problematico, sofferto, sentimento dell’appartenenza, incoraggiano alla lamentela, al rivendicazionismo immotivato, al rifiuto di ogni assunzione di responsabilità».

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