Letteratura

Impressioni sul “Colibrì”

16 Luglio 2020

Ritorno sul “Colibrì” di Sandro Veronesi, libro del quale, anche prima del premio Strega, si è parlato con toni così entusiasmanti.

Senza peli sulla lingua, dico subito che, anche in questo caso come purtroppo in tanti altri casi simili, ci troviamo di fronte ad un romanzo che ha avuto la fortuna di godere di un contesto particolarmente favorevole che ne ha sopravvalutato il valore reale.

Dico subito che si tratta di un’opera appena dignitosa ma non certamente di un libro importante o, come qualcuno ha scritto, di un capolavoro.

Un’analisi strutturale del testo ci porta a concludere come lo stesso sia, in molte parti, forzato, chiaramente prolisso, infarcito di spiegazioni o notizie che ne appesantiscono la lettura.

Sono certo che un sapiente lavoro di editing l’avrebbe certamente depurato di almeno una cinquantina di pagine, del tutto superflue.

Ma andiamo alla storia cominciando dal  contesto rappresentato.

E’ evidente che si tratti di ambienti tipicamente piccolo-medio borghese, i protagonisti sono tutti professionisti più o meno di successo e aspiranti artisti, un contesto d’impronta radical chic, particolarmente obbediente al political correct.

Un contesto nutrito di banali  ricerche di esotismo fatto di citazioni bibliche, di ricordi ad eccentriche letture profetiche, dove i protagonisti sono tutti compresi a rompere con le regole tradizionali e per questo si incamminano su percorsi che conducono ad esiti spesso tragici.

Immancabile, in una società in cui l’identità personale sfuma nella ricerca di modelli e stili originali, la presenza ingombrante e condizionante di stuoli di psicologi e psicoterapeuti affannati a lavorare su queste personalità difficili.

Il risultato finale è quello di un romanzo libro malinconico, perfino triste, che induce alla depressione,  segnato da tanti morti e da tanti dolori, e dalla ricerca tragica dei sopravvissuti di modi utili per quelle che vengono definite elaborazione del lutto o del dolore.

Tutto si riduce ad una sorta di lungo monologo, in qualche caso addirittura forzato rispetto alla stessa narrazione che lo rende, proprio per questo anche noioso.

 

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