Letteratura
Il vento degli altri, storia degli esuli di Fiume
Ci sono periodi (legati all’età, o forse anche no) in cui una miscela di insoddisfazione, fastidio, tristezza, insomma noia, e di disgusto, rabbia, delusione, vergogna per ciò che non si è riusciti a migliorare di quanto avremmo voluto e vorremmo ancora cambiare, esigono di disconnettersi un poco. Periodi che ti spingono a non avere voglia: di ripetere come dannatamente pericolose siano le pance sfrenatamente plebee eccitate da buona parte della politica che ci circonda, come irresponsabili siano le frammentazioni e gli odi personali che vedi nella “tua parte”; di scrivere la puzza di ignoranza fascista che sei costretto a respirare quasi quotidianamente. E allora ti rifugi e ti affidi – almeno a me capita così – nelle e alle letture. E magari inconsciamente cerchi storie di passioni, sensazioni, fatti, lacrime e gioie, esperienze di ieri che facciano da specchio a un oggi irrimediabilmente (?) sbiadito. Per non sentirsi calpestati.
Ho iniziato questo “percorso” qui, su Gli Stati Generali, il 5 ottobre, ragionando su La ragazza con la Leica (Guanda) di Helena Janeczek. Vita e morte di Gerda Taro, il suo amore/avventura con Robert Capa, gli Anni Trenta, luttuosi e idealisti e coraggiosi. Onore a Gerda, fotoreporter schiacciata in Spagna dai cingoli di un carro armato nel 1937, pochi giorni prima di compiere 27 anni.
Poi si torna alle notizie, ai tg, ai giornali, alla “emergenza migranti” – quale emergenza?, fottuta polemica elettorale, dei migranti alla maggioranza di questo paese non frega assolutamente nulla, così come dei “nostri” concittadini poveri, emarginati, frustrati. Si parla di “centro-sinistra largo” – e mi accontenterei di un centro-sinistra degno di questo nome.
Ecco arrivare Il vento degli altri (Pendragon), scritto da Silvia Cuttin. Fiume, oggi Rijeka: dalle criminali puttanate dannunziane agli orrori titini, passando per il fascismo, la paura, l’eroismo, le delazioni, l’amore e la passione che non guardano alle etnie e alle classi sociali ma la maggior parte delle volte vengono sconfitti dalla storia. Tutto ruota intorno a via Rossini 3 e ai suoi abitanti, la famiglia Superina, i Löwen, la famiglia Nicoli e i Mikac, fino ai Salvadori e ai Kovács. In una Fiume ch’è una piccola Trieste, sulle rive gli stessi edifici austroungarici costruiti per i grandi alberghi, le assicurazioni e le compagnie di navigazione. Anche a Fiume puoi perderti nel liberty, però fuori, intorno alla città, rimangono i grandi casermoni di epoca titina. Echi sveviani, molto senso del confine, intimo fors’ancora più che geografico.
Su questa vicenda, un susseguirsi di pagine di intensa intenerita pietà, aleggia una sguardo chagalliano. Lo dice magari senza neppure saperlo la voce narrante riguardo a Elena, personaggio clou: «Guardava e osservava come se si trovasse allo stesso tempo fuori e dentro la scena e sentiva, quasi con dolore e commozione, che quei momenti di serenità e gioia se li sarebbe sempre portati dentro, come un prezioso tesoro». Ch’è poi – io credo – il sentimento con cui Silvia Cuttin ha affrontato questa sfida pubblica e privata, documentazione scientifica di livello legata a incancellabili racconti e emozioni di famiglia.
Vittime che non diventano mai né mai diverranno numeri o generici portati di quella Memoria che perdendo pathos rinuncia al proprio compito, umano prima ancora che civico e politico. Nomi che sono nomi, volti che restano volti, lacrime, eros, morte, nascite. Per sempre nomi, individui, esseri umani, perfino i più spregevoli.
Via Rossini 3, palazzo affacciato sul Teatro Verdi. E le montagne dell’entroterra, le vicine spiagge, scogli e ciottoli, acqua meravigliosa, dove gioca(va)no ragazzini croati, italiani, ebrei, cechi. Ragazzini, donne e uomini che tempesta dopo tempesta se ne andranno (anche in Palestina). Chi per sempre, chi per tornare. Gli esuli, i rimasti (per scelta o perché fu loro negata la domanda per rimanere italiani e quindi partire), i venuti (quelli che Tito importò dalla Yugoslavia).
Leggendo Il vento degli altri, percepiamo le difese emotive reggere a fatica perché, proprio come Giorgio Pressburger, «ogni volta che penso a chi scappa, a chi è in fuga, sento nelle narici l’odore della terra bruciata. Sento che lì la vita tarderà a rinascere».
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