Letteratura
Il Scappamorte
Quello che più stimo di GianMario Villalta, poeta, narratore e direttore artistico di Pordenonelegge, è soprattutto la nitidezza, quel modo preciso di chiamare le cose, di dire ciò che è dentro e ciò che è fuori; una parola che cesella la sua e un’espressione chiara, alle volte feroce, su quello che è e quello che non è. In una società ovattata di litoti o scorticata di offese, il dire di Villalta riabilita l’importanza del punto di vista, del prendere posizione con cognizione di causa e coraggio.
Non mi sorprende allora che la sua ultima produzione poetica, Il Scappamorte (Amos Edizioni 2019), scelga una figura-ponte, da cui il titolo dell’opera, fissata tra i versi nell’atto pretenzioso e nobile di provare a mettere in dialogo le due contrastanti facce della stessa medaglia: l’io del sonno e l’io della veglia. Da una parte, infatti, la notte e le tenebre, da cui Il Scappamorte ha origine e dalle quali si allontana per poi, inevitabilmente, ritornarci; un mondo, questo primigenio oscuro, che non si riduce a essere sinonimo di morte, assenza o inconscio, ma che diviene in Villalta anche possibilità di riposo e rifugio. Dall’altra, la luce dirompente della veglia, del giorno appena sbocciato, in cui si formalizza l’attesa e la scelta cade esatta dalla coscienza alla vita.
A fagocitare il lettore in questa dualità-doppia perennemente sospesa, è l’elemento biografico, aderente più o meno alla vera biografia dell’autore poco importa, capace di fungere da prode calamita che ben esegue il suo compito attrattivo: siamo così anche noi lì, a chiederci che cosa aspetti sempre?, a volere ancora un minuto un minuto. Villalta, senza abbondare per un attimo la ricercatezza del suono-buono e della parola-esatta, fa sedere sulla stessa giostra il noto e l’ignoto, il pensiero e il sentimento, lo sguardo io-verso-gli-altri e io-verso-me, ci costringe senza stringere a riflettere sul senso dell’esistenza: mentre non era vero/ma crederlo faceva male uguale/a non credere in nulla (inutile piangere, gridare).
Perché la vera questione, e Villalta lo sa bene, non è ragionare in termini di veridicità, cioè capire e porre punto là dove il regime del vero sia alla fine collocabile nella sede del conscio o dell’inconscio; ciò che preme e conta è trovare, comunque o magari, un senso: va bene l’oroscopo, si accetta anche il mondo al di là della propria parete, ritorna per forza la madre e pure la televisione. Bisogna compiere tutto il giro, la giostra di cui sopra non si arresta, e Il Scappamorte sembra saperlo più di noi, senza la boria de Il Conoscente-personaggio di Fiori, eppure avvolto anche esso da una conoscenza che tende al di più, all’oltre.
Non so se in questa contrapposizione ciclica, al di là di alcuni componimenti specificamente riferiti alla società, ci sia la volontà di rappresentare anche lo status di etero-direttività da cui siamo afflitti e in cui annega silenziosa e senza grossi spasmi la quotidianità moderna; lo chiederò a GianMario. Certamente, però, c’è una provocazione all’uscire dal torpore, o quantomeno a interrogarsi sull’assidua convivenza con lui.
Tante cose ancora ci sarebbero da dire su Il Scappamorte, perché in pochi componimenti Villalta ha saputo porre parecchie questioni, inanellare gli interrogativi sul tempo da una prospettiva inusuale e propizia a nuove risposte, a risposte altre; senz’altro, comunque, un’opera di pregio; un esempio, e il titolo ce lo anticipa, di poesia viva.
Sono stato un bambino insonne.
All’inizio era tutto catturare il momento
dello sprofondo, quando l’io vigile
si dissolve e subentra quell’altro che sogna
e sa che dorme.
Non è stato facile
rinunciare a un gioco dove pareva possibile
soffermarsi sula soglia del perdere sé
e sorprendere – nella notte,
nel buio della mente, afferrando, – l’istante,
la chioma sua di cometa già dentro il niente.
Tra me e me lo chiamavo il scappamorte.
È stato l’altro, poi, a sorprendere me:
da un sogno dove l’avevo lasciato all’alba
senza più ricordarmi,
mi ha svegliato mentre mi stavo perdendo
dentro le cose solite
che perdono tutti ogni giorno.
Ti direi solo di guardare, ecco qui gli occhi, guarda da te
la terra quanto è nera è il peso dei cachi sui rami nudi
finché sai come dirlo – è: profondo – l’inverno ha varchi
trasparenti le palpebre il quieto inverno
si china poi sul tuo viso così vicino che non vedi più
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