Letteratura

Il Romanzo Russo di Emmanuel Carrère

8 Gennaio 2020

Emmanuel Carrère è uno di quegli scrittori che riescono a suscitare pensieri contrastanti anche dopo pochissime righe di lettura. Se, da un punto di vista narrativo, le sue storie sono un enorme quadro di azioni dipinte a tratti intersecanti e sovrapposti, il suo stile di scrittura è decisamente unico, non ammette mezzi termini e definisce i criteri entro cui leggere ogni storia.

Il presupposto per iniziare a scrivere, Carrère lo carpisce grazie al ritrovamento in Russia di un prigioniero ungherese, senza nome e storia, trattenuto in un manicomio dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Da questa vicenda prendono il via divagazioni più o meno importanti che raccontano la vita di Carrère come uomo all’epoca in cui viene scritto (più o meno in modo fittizio) il romanzo.

L’autore, assieme ad una troupe televisiva, parte alla volta di Kotel’nič, una dispersa cittadina russa, e riscopre le sue origini,  storiche e linguistiche, che lo hanno formato e destinato a diventare quello che è, con tutti gli aspetti positivi e negativi che ne vengono tratti. Contemporaneamente al viaggio in Russia, Carrère descrive la sua attuale situazione sentimentale con la bella Sophie, fatta di sogni, desideri, incontri intimi e coraggiose pratiche di adulazione amorosa.

È in queste pagine che l’autore non si risparmia, ma mette per iscritto la propria verve letteraria più vivace e ricca di immaginazione, messa di fronte ad una più contenuta ma ugualmente drammatica logica di saga familiare che affonda le radici nelle proprie origini così osteggiate dalla madre e quasi idolatrate dal figlio, come una ricerca disperata del linguaggio e dalla forma di pensiero da cui è nato il suo essere scrittore.

In questo modo nascono, pagina dopo pagina, personaggi che caratterizzano le varie storie, racchiuse una dentro l’altra come una matrioska, con linee temporali che si perdono e si riprendono, in cui a rimanere a fuoco sono l’immagine di Sophie e il viaggio, cercato e ripetuto, in una terra lontana e aspra come quella in cui un uomo è vissuto 70 anni senza nemmeno sapere perché. Il protagonista, alla fine, è sempre Carrère, con la sua flemmatica posa narcisista e autoreferenziale che, ovviamente, lo rende sempre oltre le righe e discutibile agli occhi del lettore.

Distanti anni luce, ma viste dagli stessi occhi, sono le situazioni “francesi” e “russe” in cui lo scrittore viene a trovarsi. Si tratta della descrizione di ambienti e persone diametralmente opposte, ma anche di storie che hanno un filo conduttore comune, che nel giro di qualche mese le porterà entrambe ad uno scioglimento inizialmente impossibile da immaginare. La parte francese del romanzo, ricca di suggestioni e tratti di una vita quanto mai “da artista” urbano, fanno da contraltare alle vicende delle bettole e delle fredde case russe in cui si incontrano i personaggi della parte quasi totalmente “sovietica” della storia.

Il finale, presumibilmente realistico, chiude una sorta di diario ipertestuale in cui nulla è definito, ma in cui tutto è ottimamente descritto nella prosa coinvolgente e lucida che accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina, in modo magnetico ed estremamente narcisista.

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