Letteratura
Il romanzo italiano tra io, finzione e realtà
In un articolo pubblicato il 19 marzo su la Repubblica, a firma di Lara Crinò, in cui ci si pone il problema della qualità dei titoli in corsa per il premio Strega, viene toccato uno dei temi principali relativi alla condizione del romanzo e delle opere di finzione in questo momento storico. Il critico e scrittore Matteo Marchesini, autore del recente Casa di carte (il Saggiatore) in cui si ripercorrono gli ultimi decenni della letteratura italiana, in particolare afferma: “se devo individuare dei difetti tra i narratori attivi, diciamo tra i 30 e i 70 anni, è il fatto che c’è un io del personaggio narratore che è imponente, a volte ipertrofico, e questo io non è messo a confronto con un’idea diversa per cui la risultante di quell’opera non sia difforme dalla visione di quell’io. Molto spesso non c’è contraddittorio. Quel personaggio, che assomiglia troppo allo scrittore e alla sua idea del mondo è sempre più nobile, più puro della realtà che incontra”. La questione è stata posta anche da Daniele Giglioli, professore di critica e letterature comparate all’università di Bergamo, domenica scorsa durante un incontro tenutosi a Bookpride, presente anche Marchesini, e moderato da Andrea Gentile, direttore editoriale di il Saggiatore. Giglioli sembra registrare il tema, sospendendo il giudizio: è un fatto che in questa epoca letteraria, pur all’interno di opere di fiction, nei modi più vari, c’è una presenza forte ed evidente di un autore-protagonista delle vicende raccontate, o di un autore che porta esplicitamente il suo sguardo e la sua funzione di osservatore all’interno della storia, anche quando questa non lo riguarda, o non lo riguarderebbe, direttamente.
A tale proposito è emblematico il nuovo romanzo di Claudia Durastanti, La straniera, uscito da poche settimane per La nave di Teseo, in cui l’autrice racconta la sua infanzia tra New York e la Basilicata e la vita dei suoi genitori affetti da sordità, affrontando, tra le altre, questioni come la percezione della disabilità e le differenze di cultura tra luoghi diversi. Altrettanto rappresentativo di questo discorso è L’uomo che trema (Einaudi, 2018), dove l’autore, Andrea Pomella, attraverso lo strumento del memoir, affronta la storia della sua depressione.
Tirare un giudizio netto è assai complesso e forse impossibile: ci sarebbe da porsi il problema opera per opera, libro per libro, differenziando caso per caso. Però, se si pensa che il genere del romanzo è relativamente giovane, poco più di due secoli in tutto, non sorprende, per esempio, che quello che è accaduto negli ultimi tempi in altre forme di narrazione possa aver, naturalmente, osmoticamente influenzato gli scrittori. Pensiamo alla metamorfosi del giornalismo, al ruolo delle tv, dei notiziari all news in tempo reale, all’avvento di internet. Tutte cose che ci fanno sentire, in parte illusoriamente, protagonisti e partecipi di quello che accade, in ogni minuto di ogni giorno, nel mondo. È plausibile, se questo è il mood mediatico attuale, o almeno quello in cui abbiamo vissuto da qualche tempo a questa parte, che questa tensione-bisogno di essere protagonista delle storie che si scrivono e si leggono o si vedono riguardi anche il binomio scrittore-lettore. Del resto, aprendo e chiudendo subito una parentesi che richiederebbe pagine e pagine, anche in un genere letterario (o forma letteraria) ben più antico, e millenario, come la poesia ci si pone il problema del ruolo e dell’incidenza dei social network.
Il tema è, come dire, nell’aria: sabato sera, reduci dagli incontri di Bookpride, se ne parlava in un ristorante cinese di via Paolo Sarpi, a Milano, con lo scrittore e drammaturgo, Fernando Coratelli, che lamentava come a volte gli editori tendano a vendere un’opera o un libro, sottolineando che si tratti di fatti tratti dalla realtà, di storie vere, e puntando, cosa criticabile, invero, su questo, e non su altri fattori, per convincere i lettori all’acquisto.
Le forme della scrittura e della narrazione mutano, inevitabilmente. A mio avviso, non è questo il problema, né tantomeno quello della presenza e dello sguardo dell’autore-osservatore all’interno della storia. I modi possibili sono molti. Il punto è sempre quello del come, ovvero di come la storia viene scritta. La letteratura sta nella sua forma, ovvero nella scrittura: nella qualità e nella riuscita della scrittura. Poco importa quanta parte di io e di realtà vissuta ci siano nella storia. Se si punta qui la riflessione si rischia di perdersi in equivoci. Ci sono romanzi, dichiaratamente o implicitamente, tratti dalla realtà vissuta in cui la parte di fiction e di invenzione è ben più ampia di quanto si potrebbe supporre. E spesso è così per rispetto alle necessità reali, oggettive, di tecnica, di contenuto, di coerenza letteraria della storia. La letteratura inevitabilmente trasforma la realtà, come ogni arte, e più di ogni altra arte, poiché è fondata sulla scrittura-linguaggio, creata in assenza delle cose e caratterizzata da un grado maggiore di astrazione. L’onestà e la coerenza dello scrittore si vedono su un altro piano: nella capacità di dire bene quello che si è proposto di dire. E ci sono opere di radicale finzione dove è evidente che l’esperienza di vita dell’autore gioca un ruolo fondativo e prezioso: un esempio su tutti è l’opera di Franz Kafka. E, ancora, se c’è la scrittura, se viene risolto il problema della forma, del come, poi, conta anche la storia: non tutte le storie sono uguali, alcune hanno una forza, una capacità maggiore di altre di parlare ai singoli e alle sensibilità collettive. Il punto è (anche) quello su cui ancora Giglioli chiosava a Bookpride: “Se tra lo scrittore e la (sua) pagina accade qualcosa, se c’è una gioia della scrittura, si vede, si sente”. Inoltre, senza assolutizzare il concetto, ma avanzandolo giusto come spunto di riflessione, in questa fase, forse più che in altre, quando si legge, si avverte l’importanza di una connessione forte, o significativa, quasi fosse una prova di autenticità della creazione, tra lo scrittore e le cose che scrive-racconta, si tratti di realtà, di fatti vissuti o di vicende collocabili, almeno formalmente, stando a quanto l’autore dichiara, nel campo dell’invenzione. Il che, ovviamente, non significa che la fiction debba essere bandita, sia chiaro. La fiction, la capacità di inventare storie, vicende e personaggi faranno sempre, o per molto tempo ancora, parte della letteratura. Ma forse oggi più che mai, probabilmente anche per le ragioni che si dicono sopra, la finzione posticcia, strumentale e mal riuscita stride, disturba e, peggio ancora, annoia.
Sempre su la Repubblica, il presidente della Fondazione Bellonci Giovanni Solimine e il critico e professore Giovanni Giunta ripropongono il ciclico dibattito sui troppi libri pubblicati e sull’immaturità, sull’incertezza e sull’attitudine velleitaria presente in molti testi. Saggiamente, Filippo La Porta evidenzia come il fenomeno non sia nuovo: “L’elenco dei vincitori del premio Strega, dagli anni ’60 e ’70, a parte alcuni titoli straordinari, è di imbarazzante pochezza. Ogni anno in Italia escono quattro o cinque libri importanti. Lo scorso anno c’erano i romanzi d Claudio Piersanti e di Michele Vaccari, un diario narrativo di Roberto Casati, i racconti di Letizia Muratori. Non meno che, ad esempio, negli Stati Uniti o in Francia”.
La scrittrice e critica letteraria Gilda Policastro, con la sua proverbiale vis polemica, sostiene che ci sia “un enorme scarto tra poeti e narratori. In Italia abbiamo grandi poeti, anche nella narrazione recente, ma non grandi romanzieri”. Guardando all’oggi, posto che le valigie degli attrezzi tra le due forme letterarie sono piuttosto differenti, ci sembra che in Italia ci siano sia bravi poeti sia bravi romanzieri-scrittori. Alcuni li nomina Policastro stessa, sottolineando che i premi letterari tendano a trascurare gli autori di maggiore qualità: “Franco Cordelli, Michele Mari, Giorgio Falco, Vitaliano Trevisan”. E a questi possiamo aggiungere, insieme a molti altri, Andrea Tarabbia, Marco Rossari, Filippo Tuena, la Laura Pugno di Sirene (Einaudi, 2007; Marsilio, 2017), Mary Barbara Tolusso (queste ultime anche poetesse), Davide Orecchio, il Franz Krauspenhaar di Era mio padre (Fazi, 2008), Tommaso Pincio, Giuseppe Munforte, Giordano Tedoldi, Alessandro Zaccuri. Quanto ai premi letterari: sì, dovrebbero riconoscere e premiare di più gli autori più bravi, quelli che mostrano la scrittura migliore. Però, se l’abito non fa il monaco, il premio non fa lo scrittore. Non si ricorda che il già citato Kafka abbia mai vinto un premio letterario. E quando il Ministero della Propaganda portoghese, nel 1934, assegnò un premio ad hoc a Fernando Pessoa per la sua opera Messaggio, forse con l’intenzione di avvicinare il poeta al regime di Antonio de Oliveira Salazar, questi di lì a pochi mesi attaccò il governo sul Diario de Lisboa.
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