Letteratura
Il romanzo delle Brigate rosse di Alessandro Bertante
Alessandro Bertante – Mordi e fuggi– Baldini e Castoldi 2022
Un altro romanzo ambientato a Milano. A differenza della Milano di Piersanti (urly.it/3nzhn) forse intravista solo sulle mappe, questa di Bertante è catturata dal vero come delle vecchie istantanee in bianco e nero dell’agenzia fotogiornalistica Grazia Neri. Da piazzale Zavattari, al Ticinese, a Porta Genova, dal Giambellino a corso Garibaldi, allora, anni 70, ancora quartiere popolare, a porta Venezia, c’è tutta la Milano nebbiosa e fredda con la sua gente, il popolo dei bianchini, delle giocate a “tressette e ciapa no” e le vecchie trattorie dei risotti gialli con la luganega (salsiccia), la piccola malavita (la ligèra), insomma la Milano popolare operaia, prima della grande trasformazione modernizzante degli anni ’80, e vi risparmio la locuzione “da bere”… Lo dico subito: l’affabulazione è nonostante l’assenza di particolari bagliori stilistici suasiva e accattivante con una grazia tutta sua, procedente per forze e linee interne che catturano e non lasciano indifferenti. Il termine “romanzo”, a dire il vero, mi disturba se adottato per la ricostruzione di atti e fatti oggetto di ricognizione e investigazione storica e non ancora del tutto acclarati neanche nei tribunali. Ma è chiaro che è un romanzo “storico” seppur non narrato con la vista dall’alto, ma in soggettiva (l’angolo visuale di un reale fondatore delle BR), ed è quel genere “misto di storia e di invenzione” che reclama la ripresa del noto paradigma di Manzoni circa la dialettica tra “vero positivo” e “bello poetico”, tra “carta geografica” propria dello storico e “carta topografica” tipica del romanziere. Ma anche può giovare per inquadrare la questione che non è solo di tecnica letteraria, vista la tendenza sempre più diffusa a romanzare la storia recente (è di questi giorni l’uscita del “romanzo” su Falcone di Saviano), l’osservazione pungente di Walter Siti in Contro l’impegno secondo il quale «Il romanzo si aggrappa ai fatti veri per riscattare l’inoffensività che ormai si è incollata al genere».
Ad ogni modo, qui l’autore è come se piazzasse un testimone narrativo implicito e fittizio, il ventenne Alberto Boscolo, all’interno della storia reale dei Renato (Curcio), Margherita (Cagol), Mario (Moretti), Corrado (Simioni), o il Mega (Alberto Franceschini) e ne segua tutta la vicenda che storiografi, giornalisti e sociologi hanno in tutti questi anni faticosamente ricostruito. Ci sono dunque, tra storia e romanzo, tra vero e verosimile, eventi, esistenti e luoghi tutti narrati con scioltezza e fluidità, dal Collettivo Politico Metropolitano, alla comune di Piazzale Stuparich, alla Sit-Siemens di Piazzale Zavattari al convegno di Chiavari a “quelli del gruppo dell’appartamento” di Reggio Emilia, al congresso fondativo di Costaferrata, ci sono insomma tutti i momenti iniziali delle Brigate Rosse e successiva storia con la focalizzazione sul sottovalutato radicamento nei quartieri popolari (Quarto Oggiaro e Giambellino) e nelle fabbriche – prima degli attentati e della svolta militare, vedi l’alleanza con Giangiacomo Feltrinelli (Capitano Osvaldo) e i suoi GAP, ecc – intelligentemente visti attraverso gli occhi di questo militante studente piccolo borghese, un po’ Adso da Melk del Nome della rosa in perenne adorazione dei suoi idoli, specie Renato e Margherita e un po’ Nečaev già egli stesso in fase avanzata di delirio rivoluzionario nonostante che le due donne amate, Anita e Bruna, l’amico partigiano Arturo e in disparte e nell’ombra i genitori, tentino di dissuaderlo. Manca forse nel “romanzo” il motivo della vigilia, l’indagine sulla ragione specifica profonda di Alberto nella scelta sovversiva, il suo “proprium”, il momento dell’incubazione solipsistica, al di là dell’effetto trascinamento dei tempi ideologici (lo vediamo nella prima scena coi suoi volantini in mano, eccitato, davanti ai cancelli della fabbrica come accadeva a tanti anonimi attivisti).
La vicenda di Alberto Boscolo militante della Direzione Strategica delle Brigate Rosse dopo l’incontro toccante col vecchio partigiano Arturo, libraio in porta Venezia, ha una svolta decisiva. Seguono pagine di forte intensità che preludono a un epilogo di cui non anticipo la portata. Dico solo che qualche tarlo si è insinuato. Arturo, nella sobria conversazione decisiva, adotta all’indirizzo di Alberto una espressione «guerra immaginaria», dove è l’aggettivo che colpisce il giovane. In quegli stessi anni Settanta, certo dal versante liberale borghese, Raymond Aron e Vittoria Ronchey avevano stigmatizzato l’ubriacatura ideologica che aveva investito sia la Francia che l’Italia con la locuzione di «marxismo immaginario». Ma le parole di Arturo provenendo da obiezioni realistiche di un ex combattente hanno un carico di disillusione storica più che di sanzione ideologica, e perciò scavano nella mente di Alberto un rovello che gli procura questa considerazione:
C’erano le persone, prima delle classi sociali. Sacco e Vanzetti ma soprattutto il Bitter Campari, da bere con la soda come insegnava la televisione. I bisogni, cazzo, non le idee. Noi eravamo comunisti prima di essere brigatisti. E invece basavamo ogni nostra strategia politica rapportandoci a una realtà rappresentativa solo di una specifica minoranza urbana, significativa certo ma una minoranza. E non bastava, in nessuna epoca aveva funzionato». Il romanzo trova il suo “bello poetico” (al di là della scelta tragica della militanza in un’organizzazione mortifera il “romanzo” ha le sue ragioni che la “storia” non comprende né ricomprende) in momenti narrativi stringenti e di particolare finezza. È la storia di una mente giovanile che miscelando ideali e avventura si confronta coi grandi enigmi, gli ismi, della Storia, ma soprattutto col voltaggio mentale, il corredo ideologico, i libri, le letture e fatalmente il lessico di un periodo che sembra di ere geologiche passate e che è solo di cinquanta anni fa.
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A lettura conclusa uno sguardo al “vero positivo”, o meglio alle sue interpretazioni su basi di indagine storiografica, va dato. Nel “romanzo” è accolta la tesi che circola da sempre tra militanti e studiosi di sinistra che la violenza politica sia stata una risposta – e per questa ragione dunque legittimata e legittima -, alla grave violenza statale dell’attentato di Piazza Fontana (“Strage di stato”) e della morte di Giuseppe Pinelli. Fuori dal nostro romanzo che porta in epigrafe una frase del Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, ma in sede di indagine storica, c’è un altro Vogliamo tutto. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960-1988 (Laterza, 2012) dello storico Angelo Ventrone in cui è argomentato, con una riflessione molto documentata, che non andò proprio così, e che «la teorizzazione di una violenza aperta contro il sistema aveva preso piede ben prima del dicembre del 1969, ritenuto retrospettivamente da molti il momento in cui una parte dei settori più politicizzati dell’estrema sinistra avrebbe deciso di armarsi per difendersi da uno Stato che, con piazza Fontana, sembrava non esitare, pur di proteggere gli interessi dei suoi manovratori, a praticare una strategia terroristica. Il cammino era dunque iniziato prima».
Nel nostro romanzo il protagonista Alberto dice che: «Se ti ammazzano in questo modo l’unica risposta è l’odio» e che bisogna «combattere lo Stato con la sua stessa violenza». Ventrone rammenta, di contro, che un brigatista come Valerio Morucci era già stato folgorato dalle parole di Mario Tronti in Operai e capitale, la “bibbia” dell’operaismo, che ricordiamo è del 1966 tre anni prima di Piazza Fontana, dov’era scritto che bisognava cominciare ad usare «quella che chiamano cultura come si usa un martello e un chiodo per appiccare il quadro», e che finché «il terreno è occupato dal nemico bisogna spararci sopra, senza lacrime per le rose», e che, poiché la conoscenza è sempre legata alla lotta, «Conosce veramente [solo] chi veramente odia». Insomma la cultura dell’odio e della violenza era insita nel programma sovversivo e rivoluzionario di frange dell’estrema sinistra ben prima di piazza Fontana e le BR non fecero che ereditare e eseguire uno spartito scritto a partire dai primi anni Sessanta, e cioè che la lotta armata fosse il logico e necessario approdo del conflitto Capitale-Lavoro se alimentato, come avvenne non solo in Italia, da una pressione implacabile degli apparati produttivi da un lato cui rispose un fortissimo spirito di scissione ideologico dall’altro.
Poi c’è un altro dettaglio che mi fa supporre che questo romanzo delle BR sia stato costruito sulla base di una documentazione di cui mi sfugge la consistenza e la profondità al di là dell’«air du temps» che invece è felice e ben circostanziata. Ed è lo stupore che assale il narratore in più punti circa il fatto che i primi brigatisti, a partire da Renato (Curcio) e Margherita (Cagol), avessero una formazione religiosa, cattolica o valdese. «Sinceramente, questa cosa dei cristiani in armi facevo fatica a capirla, era lontana da tutto quello che avevo imparato leggendo Camus, il Marx dei Manoscritti, i filosofi della Scuola di Francoforte e i testi dei situazionisti Debord e Vaneigem. Per me il materialismo ateo era un punto di partenza irrinunciabile di qualsiasi prospettiva rivoluzionaria». Sfugge alla voce narrante la nozione messa al centro della sua modellizzazione sociologica da Alessandro Orsini (in Anatomia delle Brigate Rosse, Rubbettino, 2009) e cioè la flessione religiosa assunta dal marxismo in termini di aspettativa soteriologica ed escatologica già nei primi decenni del ‘900 (segnalata anche da Hobsbawm nel Secolo breve) e la conseguente ossatura gnostica del brigatista pantoclasta (cfr nel saggio di Orsini particolarmente il capitolo La sacralizzazione della politica). E in ultimo, sempre su questa scia religiosa, non stupisce che in quegli anni ci fu chi vide nei frati eretici dolciniani del Nome della rosa di Eco un travestimento narrativo delle BR (donde la mia equiparazione più sopra dello sguardo di venerazione di Boscolo verso i suoi eroi a quello di Adso da Melk verso Guglielmo di Baskerville).
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Finalisti PREMIO STREGA 2022
A fianco di ogni libro troverete il link alla sua recinzione (recingere con un testo un altro testo) su questa rivista man mano che pubblicherò le recinzioni dei 12 romanzi finalisti.
I finalisti sono:
1. Marco Amerighi con “Randagi” (ed. Bollati Boringhieri), presentato da Silvia Ballestra. urly.it/3ny2q
2. Fabio Bacà con “Nova” (ed. Adelphi), presentato da Diego De Silva. urly.it/3nypf
3. Alessandro Bertante con “Mordi e fuggi” (ed. Baldini+Castoldi), presentato da Luca Doninelli. urly.it/3nvnf
4. Alessandra Carati con “E poi saremo salvi” (ed. Mondadori), presentato da Andrea Vitali. urly.it/3p5zh
5. Mario Desiati con “Spatriati” (ed. Einaudi), presentato da Alessandro Piperno. urly.it/3nv-j
6. Veronica Galletta con “Nina sull’argine” (ed. minimum fax), presentato da Gianluca Lioni. urly.it/3p89p
7. Jana Karšaiová con “Divorzio di velluto” (ed. Feltrinelli), presentato da Gad Lerner. urly.it/3nx4h
8. Marino Magliani con “Il cannocchiale del tenente Dumont” (ed. L’Orma), presentato da Giuseppe Conte. urly.it/3n-nv
9. Davide Orecchio con “Storia aperta” (ed. Bompiani), presentato da Martina Testa. urly.it/3p34g
10. Claudio Piersanti con “Quel maledetto Vronskij” (ed. Rizzoli), presentato da Renata Colorni. urly.it/3nzhn
11.Veronica Raimo con “Niente di vero” (ed. Einaudi), presentato da Domenico Procacci. ’urly.it/3nsnm
12. Daniela Ranieri con “Str adario aggiornato di tutti i miei baci” (ed. Ponte alle Grazie), presentato da Loredana Lipperini. urly.it/3nrz8
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