Letteratura

Il punto di vista del serial killer Čikatilo nel romanzo di Andrea Tarabbia

8 Giugno 2016

Mostrare il punto di vista sulle cose di un assassino, raccontare lo sguardo sulla vita di Andrej Romanovič Čikatilo, il più crudele serial killer dell’ex Urss, autore di 53 omicidi accertati, tra donne, ragazzi e bambini, in un periodo di tempo che va dal 1978 al 1990. Questa è la scommessa di Il giardino delle mosche, l’ultimo romanzo di Andrea Tarabbia, edito da Ponte alle Grazie e nella cinquina dei finalisti del premio Campiello. L’autore si propone di mettere in scena la logica da cui origina l’agire criminale del protagonista e in particolare l’equilibrio malato che poggia sul senso di colpa derivante da una sorta di macchia sociale ereditata dal padre e sulla frustrazione e sulla rabbia cieca, repressa e a tratti incontrollabile legata alla sua impotenza sessuale.

La narrazione prende il via dalla confessione di Čikatilo, resa al capo della polizia Issa Magomedovič Kostoev. La storia per tutta la prima, ampia, parte del libro ci viene mostrata per mezzo della trascrizione che Kostoev fa della deposizione dell’imputato. Attraverso flashback e lunghi salti temporali, Tarabbia fa emergere il rapporto critico che l’omicida ha con il padre, prigioniero dei nazisti durante la guerra e, una volta tornato in Unione Sovietica, condannato dal sistema a una vita da emarginato, poiché sospettato di collaborazionismo, e la sua relazione con la moglie, sottomessa e disposta, fino alla scoperta dell’inammissibile, a credere al proprio uomo anche contro le evidenze. Ancora, l’autore, ci mostra Čikatilo mentre uccide, mutilandone il corpo, persone ai margini della società, a suo modo di vedere in difetto rispetto alla regola di vita più idonea a un buon comunista. Senza enfasi siamo condotti dentro la psiche di Čikatilo, nel suo soliloquio delirante con le vittime e con la visione immaginaria del fratello Stephan che, stando a quanto il piccolo Andrej apprese dalla madre, fu rapito e mangiato al tempo della carestia che si diffuse in Ucraina durante la guerra, ma la cui esistenza non è accertata.

E la vicenda tragica di Čikatilo, per quanto una vita singola possa essere messa in relazione con la grande storia, si proietta sull’implosione ormai vicina dell’Unione Sovietica, in cui l’idea irrealizzabile di una società materialmente egualitaria, la collettivizzazione dell’economia e la relativa militarizzazione del vivere civile avevano portato a un misticismo della morale, a un’esaltazione del dover essere pubblico, che ragionevolmente potevano acuire anche le nevrosi private.

La peculiare natura gerarchica dei rapporti durante il regime sovietico, sia in famiglia sia sul lavoro, quasi fosse un collante pubblico, una forzatura necessaria dello stato delle cose, contrastata nel bene e nel male dall’umanità, dall’originalità dei singoli, è tradotta nel racconto, viene mostrata con precisione pagina dopo pagina.
Il libro da un lato, dove l’autore lavora sui fatti, sugli atti del processo, è racconto di realtà, dall’altro, quando si viene portati dentro la psiche dell’assassino, opera di fiction pura. L’insieme mantiene in ogni passaggio una forza e un tono letterario che vanno ben oltre il resoconto cronachistico.

Sebbene sia utile all’autore per trovare una sua posizione rispetto alla storia, per essere vicino e al tempo stesso distante il giusto rispetto a una materia delicata, forse non è sempre riuscito l’espediente di dare voce a Čikatilo attraverso la trascrizione che il capo della polizia fa della sua confessione. Del romanzo vanno sottolineate la scrittura calibrata ed esatta, nei dialoghi come nelle descrizioni. E mostrarci lo sguardo possibile di un serial killer, la sua morale distorta senza cadute di tono, eccessi o momenti splatter è un merito che rende Il giardino delle mosche, considerato il peso che nella storia della letteratura hanno i luoghi, un degno parallelo contemporaneo di Delitto e castigo, uno dei capolavori di Fëdor Dostoevskij.

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