Costume
Il politicamente cretino
Ora, che la poesia di Amanda Gorman recitata a Capitol Hill, in occasione dell’installazione del nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, abbia pure dei problemi di traduttori legati al fatto che per tradurre la poesia di una giovane di colore (si potrà ancora dire “di colore” o è diventato un peccato mortale?) bisogna non essere bianchi, uomini o transgender e sopra i trent’anni mi sembra un’esagerazione.
Questa esagerazione della rivendicazione ad ogni costo alla fine mostra limiti imbarazzanti come mostra i suoi limiti la polemica sul direttore e la direttrice d’orchestra, come mostrano i limiti certe battaglie lgbt+ e quelle inqualificabili delle sentinelle in piedi mute in piazza col libro in mano, come mostrano sicuramente pure i limiti certe prese di posizione di celebri pitonesse su islam e moschee, e quelle contrarie di certi imam, eccetera. Ma tirare per i piedi ciò che viene comunemente inteso come “politicamente corretto” è veramente stantio.
Provate a immaginare cosa avrebbe detto Oscar Wilde se fosse stato al posto di Amanda. Probabilmente avrebbe innanzi tutto ribadito che lui non si poteva tradurlo perché qualsiasi tentativo avrebbe patito un’ineleganza di base. Nemmeno celebri dandy d’oltremanica sarebbero stati in grado di carpire tutte le sue sottigliezze. Figurarsi metterle pure per iscritto e osare stamparle dando loro in un certo qual modo un’eternità contraffatta, visto che scripta manent. Poi, certo, magari avrebbe accondisceso perché sarebbe stata pur sempre pubblicità al personaggio. Ammesso che questo avrebbe potuto essere il parossismo dello snobismo, il politicamente corretto alle estreme conseguenze diventa assai indigesto e ugualmente parossistico a chi conserva un minimo di criterio nel distinguere le cose, gli eventi e, soprattutto, il loro contesto.
La poesia niente male di Amanda Gorman è piena di pathos, di riflessioni, di speranze, di lotte, di storia. È ancora più interessante perché scritta da una giovane donna in un momento come questo e in quel posto assai bizzarro che sono gli Stati Uniti, che poi, viste le cose che vi succedono, si direbbero “uniti” colla gomma arabica, soprattutto in questi ultimi anni di trumpismo alquanto disordinato ed esteticamente orrendo. Riporta l’attenzione all’universale fragilità della bellezza.
Ma adesso che codesta bellezza scritta e declamata da una colorata debba essere tradotta solo da persone che hanno la pelle colorata, mi sembra veramente eccessivo. La vicenda del catalano Víctor Obiols che, a causa del suo profilo “inadatto”, si è visto estromesso, solo perché bianco e sessantenne, mi ha lasciato di sasso. Cioè, non si giudica il lavoro ma il colore della pelle e l’età. E questo mi pare una discriminazione gravissima quanto quella di una persona colorata da parte di chi è bianco candeggiato.
Ci sono alcuni traduttori che dicono che se un testo è stato scritto da un comico può essere compreso fino in fondo solamente da un altro comico e non da un traduttore che può anche essere bravissimo ma comico non è. Boh, può darsi. Il che potrebbe anche escludere, assai pretenziosamente, un lettore non comico dalla comprensione profonda del testo, andando per analogie. Quindi mai accostarsi a un testo comico se non si ha una vena comica. Vietato, verboten, prohibido. Ma bisogna anche vedere il comico chi è e come si esprime, se conosce davvero tutti i trabocchetti idiomatici della lingua di partenza e quella di arrivo, perché un traduttore questo deve conoscere. E se c’è un traduttore migliore di un comico mediocre è meglio il primo, anche se comico non è, perché forse il comico mediocre impoverirebbe il testo dell’altro comico.
Sarebbe come dire che “Il gattopardo” può essere tradotto in altre lingue solamente da principi letterati che abbiano vissuto in un paese frastagliato e unificato da poco tempo, e codesti principi devono esistere negli altri paesi per ogni lingua in cui si voglia tradurre, per cui ci vorrà un principe cinese, un principe indiano, uno giapponese (questi ultimi due forse sono più facili da trovare), uno americano, uno sudafricano, uno brasiliano, uno argentino, uno congolese, uno egiziano… Altrimenti un lettore straniero che volesse leggere il Gattopardo lo dovrebbe leggere in italiano. E che se l’impari l’idioma di Dante, porca miseria!
Oppure che per tradurre le opere di scrittori omosessuali si debba per forza esserlo, altrimenti non si può capire il tormento interiore (anche quando non c’è) e si rischia di fare una traduzione sommaria. Non basterebbe quindi conoscere bene la lingua di partenza e la storia di quell’autore/autrice, il contesto storico e culturale e soprattutto idiomatico in cui colui/colei hanno scritto la loro opera. Per tradurre Amanda Gorman ci vuole ben altro.
Sarebbe come se tutti i ballerini omosessuali non potessero interpretare i principi azzurri delle belle addormentate e delle cenerentole, perché non sono abituali sventrapassere e quindi inadatti al personaggio che poi, nella favola, continuerebbe, forse, la principesca stirpe. Così come se solo cantanti negre potessero interpretare il ruolo di Aida, negrissima etiope e pure schiava.
E poi, comunque, quando si traduce qualcosa in un’altra lingua e l’autore è vivente, in genere tra autore e traduttore c’è una comunicazione, coordinata magari dall’editore, proprio perché se il traduttore ha qualche dubbio può fugarlo parlandone coll’autore. E quindi un bravo traduttore può chiedere all’autore cosa intendeva dire scegliendo quel termine e non un altro, e così via.
Amanda Gorman, inoltre, è una poetessa e questo pone altri problemi. Per tradurre un’opera poetica, forse, tutt’al più, più che avere la pelle colorata o decolorata e senza rughe, è necessario essere adusi a un linguaggio poetico e avere un orecchio musicale, perché la poesia, tra le tante sue identità, possiede anche quella della musica. Gorman usa i vocaboli e gioca con essi, cambiando il posto delle consonanti, per esempio, “tired” e “tried” a distanza di una o due parole, e fa risuonare nell’aria “afraid” “blade” “made” “glade” con rime interne, associando parole e rime a immagini complesse e semplici al tempo stesso e con frasi a breve distanza l’una dall’altra, frasi che hanno una loro musica intrinseca nella loro successione, almeno nella sua lingua, e che pronunciate di seguito provocano una certa emozione. Questi sono solo due esempi ma il brano ne è pieno. Il traduttore o la traduttrice dovranno prima di tutto essere capaci di cogliere questa musica, quest’ineffabile sottigliezza che caratterizza ogni opera poetica, altro che. Perché la musica è un metalinguaggio aggiunto al significato delle parole scelte dall’autrice, che ne compenetra il senso e lo rende più suggestivo, più profondo, più comunicativo. E rendere questi significati in lingue lontane potrebbe essere particolarmente ostico, se proprio si volesse fare un buon lavoro. E chi è cosciente di questa musica se non una persona dotata d’orecchio, bianca, nera, verde, a pois? Altrimenti resterebbe il traduttore di Google, qualora si volesse una cosa neutra né colorata né candeggiata. Obiols, per esempio, poeta e musicista bianco e maturo, queste qualità le aveva. Evidentemente, per gli editori, Gorman richiede qualità ancora superiori e politicamente “corrette”.
Ciò che più mi molesta in quest’ordinarietà dell’oggi, in cui si fanno battaglie in buona parte preconcette issando barricate ideologiche senza rendersi conto di annegare nel ridicolo, è, appunto, la sciatteria. La sciatteria, la mancanza assoluta di eleganza, che invece Amanda Gorman possiede. Di certo l’eleganza non la possiedono i suoi editori che sembrano ridurre tutto a una questione di lotta di classe ramificata e invadente anche oltre l’opera stessa perfino quando la questione in questione, forse, è in secondo piano oppure i piani sono obliqui, entrando e uscendo dai versi perfettamente in equilibrio, equilibrio che, però, deve forzatamente venir meno rispetto all’espressione artistica di una giovane autrice. E questa strumentalizzazione, secondo me, si traduce in “politicamente cretino”. Ma Amanda se ne renderà conto?
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