Letteratura

Il piccolo borghese e l’immensità. Il caso di Emma Bovary

2 Febbraio 2016

Una delle acquisizioni spirituali permanenti  della lettura di  Madame Bovary   è che quel romanzo perfetto  ha reso immortale, e da allora in poi paradigmatica, la lotta tra l’ideale e il reale, tra l’infinito e il finito, tra ciò che noi vorremmo essere e ciò che noi effettivamente siamo. Ha reso palese il dissidio fra una vita “altra” che spesso non è che una vita “alta” – cioè al disopra della mediocrità della vita di tutti i giorni – e l’umile scenario in cui essa  si svolge effettivamente. Nel caso di Emma era l’astanteria di un medico di provincia piuttosto mediocre e grigio, nel nostro caso può essere la catena corta che ci lega a un ufficio, una fabbrica,  un’occupazione non voluta, subìta e di ripiego, come lo sono la stragrande maggioranza delle occupazioni. Oppure una condizione matrimoniale che non è la nostra.

Ma noi tutti viviamo questa esperienza come una insoddisfazione latente. Sappiamo ciò che non vogliamo ma non sappiamo esattamente ciò che vogliamo. Fin quando tutto ci appare drammaticamente chiaro. Emma Bovary va al ballo della Vaubyessard e scopre il gran mondo.  Al ritorno, dice Flaubert, era come se si fosse aperta una crepa nella sua vita, uno spartiacque tra ciò che era prima e ciò che sarà dopo questa “esperienza fondamentale”. Era avvenuto l’incontro con il mondo lungamente sognato nei romanzi, aveva visto nell‘ immediato ciò che fino ad allora era desiderio mediato dalla lettura. Non occorre conoscere nei dettagli la teoria del desiderio mimetico di Renè Girard per intuire come funziona il dispositivo del desiderio. Apuleio  diceva: “Quod nemo novit paene non fit” , ciò che nessuno sa quasi non esiste, perché le cose esistono in sé e per sé, ma è solo il momento  in cui scopri che esistono che esse vengono, per così dire, al mondo.

 Emma va alla Vaubyessard: vede e sa. Ma ciò che acuisce il dramma di Emma è che dopo questa esperienza del ballo non  riesce più a vivere la vita quotidiana. L’ideale ha fatto irruzione nel reale e le rende impossibile il ménage coniugale. Ha scoperto l’infinito al di là della siepe del quotidiano: come potrà adattarsi al tran tran di tutti i giorni quando ha visto il mondo?! Scopre improvvisamente la pochezza del marito, s’avvede per la prima volta che ha una nuca orrenda, e,  assalita dall’angoscia, vede tutta la sua vita come affogata nella minestra serale che è costretta a consumare con lui. E una volta sola nel suo dolore si chiede angosciata: “Dio mio, perché mi sono sposata?”.

Invero tutte le Emme di questo mondo (e noi tutti siamo Emma Bovary!) hanno – indipendentemente dagli stimoli della vita brillante che i giornali oggettivamente di destra si industriano ad illustrare (lo chiamano gossip, ma è una forma raffinata di sublimazione oppressiva) al solo scopo di farle sognare e rosicare per meglio controllare-, hanno, dicevo, un solo problema: la gestione del quotidiano. E non è un problema da poco. Occorre  la forza d’animo,  lo spirito incrollabile di un anacoreta, l’eroismo di un Sisifo  per affrontare  tutti i santi giorni la gestione  – i latini le chiamavano le “cure” – del vivere, del semplice mantenersi in vita. È il quotidiano che tempra le coppie o le fa scoppiare.

Il destino assegnato da Flaubert al suo personaggio è implacabile: chi nutre una visione erronea di se stesso, del proprio reale capitale intellettuale, non può avere altro risultato che la bancarotta dell’Io.  Madame Bovary  disegna la traiettoria di questo fallimento umano: vista ex post la vicenda di Emma suscita in noi raccapriccio più che pena. Eppure è proprio nell’uscire fuori “da” sé, nel concepirsi diverso da ciò che si è, dall’insoddisfazione “di” sè, da un sano bovarismo diremmo, che nasce il movimento e il cambiamento. A ben vedere, il “proprio” dell’uomo è essere scontento della propria condizione. È in ciò che si distingue da tutte le altre specie. C’è sempre un “momento Bovary” nella nostra vita, dunque, un momento in cui non sopportiamo e non ci sopportiamo. Ma proprio da lì può nascere la nostra riuscita o il nostro fallimento: è a partire da lì che ci potrà accadere di uscire fuori “da” noi ma anche “di” noi, ahimè, ossia di fallire se ci proiettiamo senza adeguati capitali intellettuali e morali fuori dai confini noti e abituali. Ma occorre sapere non solo ciò che vogliamo, ma chi siamo: avere contezza delle nostre capacita’ morali e intellettuali.

Flaubert, in una lettera, ricorda all’amico Le Poittevin il verso di Orazio ( Ars poetica, vv. 126-127): «Sibi constet*»: «Sii in armonia con te stesso», ovvero «Stai, resta in te», «Non tentare strade fuori di te». Ma quale avventura umana potrebbe nascere da questa formula? È solo tentando l’uscita fuori “da” se stessi che potrebbe giungere il guadagno o la perdita “di” se stessi. Solo tentando una sortita dai nostri confini, dai nostri limiti potremmo “diventare ciò che siamo”, ossia realizzarci pienamente. Ma è proprio il rischio del fallimento che ci induce a «restare in noi», col risultato che invece di rischiare un fallimento grandioso e definitivo, preferiamo un piccolo ma implacabile fallimento a rate.

^^^

* Flaubert sbaglia la citazione e scrive “Sibi constat”.

 

0 Commenti

Devi fare login per commentare

Login

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.