Letteratura

Il Pequod, don Ferrante e i Post-coronial Studies

21 Novembre 2021

Da due anni a questa parte stiamo vivendo un evento epocale e ne avremo ancora per lungo tempo. Siamo tutti sul Pequod, e cerchiamo di uccidere la Balena Bianca. Non possiamo scendere, e non possiamo batterci a colpi di ragionamenti contro di lei. Sono cambiate le nostre abitudini, le nostre reazioni mentali, le nostre aspirazioni. Non si può pensare a questa come a una «parentesi»: è un’epoca nuova. Un’epoca che ancora non si è conclusa, e quindi, come insegna Hegel, sulla quale non si può esercitare il giudizio della ragione. La Nottola di Minerva si leva al crepuscolo, quando un ciclo storico è finito, e solo allora essa può vedere nell’oscurità apparente quella luce razionale che i suoi occhi sanno discernere. Per questo non credo ai “filosofi da virus”, o “virusofia”.
Tuttavia vorrei suggerire un piccolo prezioso volume di Maurizio Ferraris che sto leggendo in questo periodo, la mattina in treno, mentre indosso la mascherina che tolgo solo di sera quando torno a casa, Post Coronial Studies, Einaudi 2021. Il sottotitolo è abbastanza illuminante: Di cosa parleremo dopo il virus?
Il pamphlet mescola vari giudizi con la disamina di vari pre-giudizi, e fotografa lo stato attuale dei discorsi pubblici – per lo più critici e reattivi (psicoanaliticamente: negazione) – come incardinati in un plot narratologico ben conosciuto, quello cioè dell’eroe che si risveglia dal letargo della moltitudine e tenta di salvarla dalle forze del male (purtuttavia alla fine vittorioso). Il libro è davvero denso e ironico, si assume il punto di vista di chi si vuol criticare per evidenziarne le fallacie argomentative. Inoltre, con una tiratina d’orecchie ai suoi colleghi accademici, l’autore se la prende con il postmodernismo e il postfoucaultismo (biopolitica), che ha oggi come campione (di vendite) il filosofo sudcoreano Byung-chul Han, ma ha come massimo esponente il filosofo Giorgio Agamben. Chi conosce Ferraris sa che batte da anni su questo tamburo; quindi, non mi dilungherò sulle sue teorie, che potete leggere in libri più corposi (ad esempio il recente Documanità, Laterza 2021).
Trovo il suo libretto interessantissimo e convincente. Benché non sia, né voglia essere, una Fenomenologia dello Spirito postocoroniale. (Immagino quanti ci stiano pensando, a questo titolo. Si rassegnino, non ci riusciranno a scriverlo. Ci vorranno almeno trent’anni, e di un novello Hegel all’orizzonte non si vede traccia).

Intanto, semmai, riscopriamo i classici. I promessi Sposi, Cap XXXVII il discorso  riduzionista, relativista, se non larvatamente negazionista di don Ferrante (giacché non nega di per sé il male, ma nega che una scienza non libresca – e dunque “non ben adoprabile” –  possa farci qualcosa). La chiusa è triste, giacché il pensoso dottore è a sua volta vittima della peste.  Paradigmatico di tanti, anche non necessariamente “dotti” filosofi e intellettuali,  odierni.

(Debbo la citazione al libro di MF):

Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.
– In rerum natura, [22] – diceva, – non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti [23]; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici [24], o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; ché questo è il loro achille [25], questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida [26] di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi [27]: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci…? [28]
– Tutte corbellerie, – scappò fuori una volta un tale.
– No, no, – riprese don Ferrante: – non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, [29] son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.
Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all’opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l’errore di que’ medici non consisteva già nell’affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell’assegnarne la cagione; allora (parlo de’ primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d’orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa [30] era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.
– La c’è pur troppo la vera cagione, – diceva; – e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria… La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino…? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?… Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?
His fretus [31], vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio [32], prendendosela con le stelle.
E quella sua famosa libreria? È forse ancora dispersa su per i muriccioli [33].

 

 

 

 

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