Letteratura
Il nano che azzannò il federale
Il nome di Salvatore B., “taccareddu” come era inteso a ragione delle sua modestissima altezza, alla gran parte dei miei lettori non dice nulla e, credo, anche a Porto Empedocle,la Vigata di Camilleri, suo paese d’origine e luogo della storia che vado a narrare, ben pochi ricordano questo personaggio. Eppure Taccareddu, un anarchico orgoglioso delle sue idee e che non aveva mai dismesso la sua fede politica nemmeno quando sarebbe stato più prudente tacere, qualcuno al suo paese lo dovrebbe ricordare.
Ma andiamo ai fatti o, sarebbe meglio dire, al“fattaccio”.
Siamo negli anni trenta del secolo scorso, il fascismo celebra i suoi fasti e fra il tripudio di un popolo plaudente, inventa la riapparizione del“l’impero sui colli fatali di Roma”. La gran parte degli italiani, peraltro consenzienti, si rassegna al corso delle cose; l’opposizione è infatti ridotta al lumicino, sembra che nessuno abbia il coraggio (o l’orgoglio) di rivendicare la propria dignità di cittadino libero mortificato dal regime.
Proprio nessuno ? Beh, eccezioni ce n’erano, in verità rarissime, visto che il coraggio (sic!) fa parte della cifra identitaria della gran parte degli italiani.
Porto Empedocle, ad esempio, di eccezioni ne vantava più d’una, c’erano uomini tutti d’un pezzo come il cugino di papà che, per mantenere fede al suo credo politico – era un comunista della prima ora – fece sette anni di confino, forzato ospite ora a Ustica ora a Ventotene, o come lo stesso Taccareddu che, nonostante il severo controllo a cui era stato sottoposto per il suo dissenso, riusciva a stampare qualche foglio sovversivo incitante alla resistenza antifascista.
Taccareddu e il gruppetto di antifascisti empedoclini avevano un persecutore speciale, il fascistissimo cavaliere Francesco V., omone manesco, spesso in orbace, che si aggirava con arroganza per le vie della cittadina marinara incutendo timore che, approfittando della impunità che gli garantiva il regime, si permetteva, talora, di regalare qualche pesante carezza sulle guance a chi non lo aggradava. Altro protagonista della nostra storia, che poi storia non è visto che fu cronaca vera, è proprio costui.
Questo pomposo e malvoluto personaggio, nella bella stagione, era solito accomodarsi in una poltroncina del rinomato Caffè Castiglione, che si apriva sulla via principale di fronte al palazzo di città, per gustarne con giusta soddisfazione il “pezzo duro” com’era intesa una particolare cassata gelato.
Il cavaliere, però, non si limitava a soddisfare il peccato di gola, da quel tronetto, si permetteva, di tanto in tanto, di indirizzare battute non sempre civili nei confronti di quanti gli scorrevano davanti.
Così accadde che un giorno, non sono a conoscenza né del mese e nemmeno dell’anno, si trovò a passargli davanti proprio il piccolo anarchico, la sua vittima preferita.
Poteva il cavaliere perdere un’occasione tanto ghiotta ?
Senza pensarci più di tanto ne richiamò la sua attenzione invitandolo ad avvicinarsi e avutolo di fronte, ergendosi in tutta la sua imponenza – Taccareddu gli arrivava non più su della cintola – cominciò a inveirgli contro non trascurando di condire le sue battute con qualche insinuazione pesante che avrebbe sicuramente punto nel vivo perfino la persona più indolente.
Attorno ai due, come allora era normale in un paese di provincia dove gli avvenimenti erano rari e le novità si fermavano ai pettegolezzi, si formò un capannello di gente incuriosita.
E qui viene il bello: una sorpresa inaspettata da ascrivere agli annali degli eventi eccezionali.
I due, il cavaliere e la sua vittima, erano divisi dal tavolo sul quale era posato il piattino col gelato e, come fu o come non fu, all’improvviso Taccareddu, con un salto prodigioso, si trovò su quel tavolo colmando così quella differenza che fino a qualche istante prima aveva dato al cavaliere una indiscutibile condizione di vantaggio.
Per un attimo, gli occhi del cavaliere sbalordito da quel che stava accadendo e angosciato perché il suo “pezzo duro” era rovinato a terra, e quelli carichi d’odio e di rabbia della sua vittima, si incrociarono a qualche centimetro di distanza.
E proprio in quell’attimo avvenne il fattaccio: Taccareddu infatti come una bestia feroce aprì la bocca e, senza pensarci due volte, addentò il naso del cavaliere che, lacerando l’aria con un grido bestiale, perdette l’equilibrio e rotolò a terra col viso insanguinato per la ferita.
Come ovvio, approfittando del bailamme, l’aggressore se la diede a gambe e, pare, che fosse riuscito a far perdere le tracce sfuggendo così alla reazione dei fascisti prontamente intervenuti a sostegno del loro capo.
Non ho mai saputo cosa avvenne in seguito, ricordo solo che di quell’episodio, raccontatomi da mio padre, restò negli anni una sola traccia, una vistosa cicatrice sulla narice sinistra del nostro cavaliere.
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