Costume
Il mondo cammina sulle gambe degli scontenti
Nel suo ultimo libro, dopo il successo de “La Cappa”, Marcello Veneziani affronta, sempre con la magia del suo filosofare, un altro particolare ed inquietante sentimento, che involge ed abbraccia la nostra vita: quello della scontentezza.
Va a scandagliare la coscienza dello “Scontento” con un esame raffinato dell’universo di questa condizione( Marcello Veneziani: Scontenti. Perché non ci piace il mondo in cui viviamo. Marsilio editore -i nodi-).
Si ha la sensazione ogni volta che si legge un suo libro -e sono tanti quelli che ne ha scritti- di un suadente arricchimento. Devi rileggerlo, anzi studiare, perché ti lascia un quid pluris, un qualcosa che non hai trovato in un altro testo, mentre nei suoi scritti rinvieni una trattazione esaustiva, completa di piena soddisfazione.
Ecco ho sempre pensato, ma mi sbagliavo, che lo scontento fosse malinconico, ma così non è: “La scontentezza non coincide con la malinconia. A differenza dello scontento, il malinconico non nutre animosità verso la vita e il mondo. Piuttosto si accascia, non si erge ad accusatore, come fa lo scontento; la malinconia è più legata all’interiorità che alle circostanze. Non sorge in rapporto alla vita e al mondo, ma è come un velo vedovile, una cataratta d’ombra che scende nello sguardo. Non è determinata da un motivo specifico, come l’amarezza, ma sgorga da un’inclinazione acuita o ferita dalla vita. La melanconia dispone all’elegia, la scontentezza all’invettiva”.
La scontentezza evoca un’energia, una risposta attiva, uno stato d’insoddisfazione; non è un cedere alla notte, al buio, alla stanchezza, un abbandonarsi alla tristezza. Dalla scontentezza si può passare alla rabbia, al rancore o al livore se si combina all’odio; non si resta nella sfera evanescente dell’inquietudine o irrequietezza, o nell’aura crepuscolare della malinconia e delle sue sorelle. La smorfia dello scontento non è quella languida del rattristato, ma è il broncio tra il disgustato e il contrariato, con un’impronta d’indignazione; la sua cupezza è severa, carica di fiele, si tinge di animosità, se non di bellicosità.
Siamo scontenti in quella dimensione individuale che è depressione.
Lasciati a se stessi gli scontenti si chiudono in un forte isolamento. Lo scontento si sente defraudato dalla sorte, ma anche alienato da sé, deprivato della sua vita autentica.
Il primo grado d’insoddisfazione riguarda il proprio corpo.
Oggi si cerca un percorso di redenzione corporale attraverso una sequenza di pratiche, interventi chirurgici, esercizi, farmaci, unguenti, esperienze. Il presupposto è che il tuo corpo non ti piace ma non è per sempre; è invece possibile mutarlo perché è un flusso senza identità, un’entità malleabile, modificabile in corso d’opera con la chirurgia, il lifting, lo sport, i farmaci, la dieta, gli integratori, il look, la moda.
Suggestiva è la descrizione dello specchio, disarmante per lo scontento.
La prima fonte dello scontento, la più vistosa e superficiale, è lo specchio: porsi davanti a uno specchio e non piacersi. Essere scontenti di sé, del proprio aspetto, che non è solo il proprio corpo; e scoprire che l’immagine di se stessi che si coltiva nella testa non corrisponde a quella del nostro corpo che si riflette nello specchio. La scontentezza di sé è il girone di ritorno della vanità. Insorge in taluni la tentazione di eludere la realtà, di sfuggire agli specchi, o quella più aggressiva e malaugurante di rompere gli specchi per non riflettersi nella loro impietosa imago. Lo specchio nella nostra epoca è anche portatile, è lo smartphone, l’ossessione dei selfie e di storie di sé, la galleria incessante di corpi, storie, facce e luoghi come puro sfondo che ci è ogni giorno davanti, documenta la nostra vita e ci impone continui, imbarazzanti paragoni.
Veneziani diventa profondo nel suo viaggio introspettivo della scontentezza quando aggancia il suo affascinante argomentare alla filosofia di Hegel.
Richiama la “coscienza infelice” quella profonda lacerazione tra l’uomo scontento in questo mondo pieno di travagli e Dio irraggiungibile.
Ciò che appartiene all’aldiquà appare all’uomo come qualcosa di inessenziale, di caduco, e dunque privo di valore; la speranza umana è tutta rivolta al trascendente. Ma questa speranza è «senza compimento» perché l’aldilà è «irraggiungibile», qualcosa che «nel raggiungimento sfugge o piuttosto è già sfuggito». Il rapporto della coscienza con l’immutabile, con il trascendente è quindi un rapporto infelice, che nasconde e presuppone una lacerazione, una scissione della coscienza all’interno di se stessa. Da questa scissione la coscienza non riesce a recuperarsi. Il suo atteggiamento verso il trascendente si configura quindi come qualcosa di doloroso, nostalgia per una conciliazione o devozione impossibile; il suo pensare rimane come «l’indistinto brusio del suono delle campane, o una calda nebulosità, un pensiero musicale che non giunge al concetto. Spinta da questa nostalgia, la coscienza si mette alla ricerca dell’immutabile come fosse qualcosa di singolo, e registra l’ennesimo scacco. Senza Dio la scontentezza non ha finale rimedio né redenzione. Senza Dio non c’è avvenire alla contentezza, né compimento. Sul piano metafisico, lo scontento sorge con la perdita di Dio e finisce con la fine dell’io.
Ma si può guarire dalla scontentezza, anzi essa è il lievito della rivolta, di una sana rivoluzione che possa portare al cambiamento, a rompere l’omologazione, quella che Veneziani definisce monopolio. Lo scontento sarà perciò l’eretico, lo scissionista che si pone contro il potere, per guadagnare un’ alterita’, una diversità significativa. Laddove prevale un solo potere sovrastante che tende a sopprimere a ogni livello la varietà del mondo e il riconoscimento della realtà lo scontento potrebbe costituirsi parte civile, soggetto del cambiamento e della rivolta. Ovunque si instauri un potere globale che non ammette difformità si mortifica l’umanità, la libertà, la dignità e l’intelligenza e insieme la comprensione del reale. È dunque sacrosanto rispondere, partendo dalla scontentezza per approdare a orizzonti più aperti e più grandi.
Lo scontento ha una fiamma dentro che deve divampare, incendiare il mondo per una sua catarsi e purificazione. Nello scontento c’è il principio motore di ogni mutamento. L’energia vitale che muove la scienza e la ricerca, inclusa la ricerca di perfezione dell’artista, è l’insoddisfazione; si ricerca perché non basta quel che già è noto e acquisito. Anzi, la legge suprema della saggezza sorge dal principio di non accontentarsi della nuda vita.
Alla scontentezza bisogna dare un’estetica, un canone ove essa possa esplicitarsi e portare giovamento.
Alla scontentezza bisogna dare uno stile e un indirizzo. Che mantenga pure il suo smalto e la sua incandescenza, a patto che non ceda all’escandescenza. Se lo scontento di fuori, cioè rivolto verso l’esterno, va riportato alla situazione reale, in alcuni casi frenandolo in altri guidandolo verso uno sbocco coerente, lo scontento di dentro trae origine dalla sua natura e dai suoi limiti; non può essere estirpato e non va nemmeno rigettato. Va piuttosto coltivato, ingentilito, reso lieve da un’estetica della scontentezza e reso saggio da un pensiero essenziale sul destino dell’esistenza.
Lo scontento deve coltivare l’amor fati, tematica molto cara a Veneziani, perché nel destino, con la necessaria ironia ed intelligenza, ma anche con la pazienza, intesa come attesa mendicante di Dio- lo ricorda Kierkegaard- possiamo trovare l’alba nell’imbrunire.
Ma se trovarla è arduo, cercarla è bello, è giusto, è saggio. Trovare l’alba dentro l’imbrunire è «difficile», ma non «impossibile». Di quella possibilità estrema resta la piccola fiducia, il minimo spiraglio. «Si alza il vento, bisogna tentare di vivere». Allo scontento si può opporre la scommessa, cimentarsi nella sfida, salvo poi accogliere l’esito con serenità.
Il mondo si regge su chi accetta la sorte ma cammina sulle gambe degli scontenti.
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