Letteratura
Il mio 25 aprile con mia nonna, Pavese e Camus
Quando si avvicina il 25 aprile mi tornano in mente alcune righe delle pagine conclusive de La casa in collina di Pavese.
Pagine che entrano nel cuore e cambiano lo sguardo, e quindi, almeno potenzialmente, la vita.
La resistenza, la liberazione, atti fondanti della nostra repubblica, portano gli italiani a collocarsi, a prender parte. Il 25 aprile c’è chi va in piazza, chi serba una gioia o una gratitudine nel cuore, chi riflette e coglie l’occasione per nuove analisi, chi se ne frega, chi rosica o addirittura polemizza, nega, compie riti dissacratori.
Il 25 aprile è uno di quei giorni che hanno la potenza di dirti chi sei, almeno sotto certi aspetti.
Chi sono io? Cosa c’entra con me il 25 aprile?
Mia nonna aveva vent’anni. Ora ne ha novanta e un’energia invidiabile. Da quando sono bambino mi racconta le storie della sua infanzia e giovinezza. Ha una memoria aneddotica meravigliosa e una espressività narrativa asciutta e irresistibile. Ha studiato fino alla quinta elementare “perché ero la prima di sette sorelle e dovevo andare a lavorare. La mia vicina di banco, che copiava da me, è arrivata al diploma perché aveva i danè… Quando l’ho rincontrata, anni dopo, le ho chiesto: ma da che parte arriva quel diploma lì che non eri buona neanche di fare i compiti di prima elementare?” e aggiunge “Sì, lo sai che non ho peli sulla lingua, io”. Ovviamente lo dice in dialetto e soprattutto lo dice ridendo. Non c’è amarezza, non c’è delusione in lei: ride e scuote la testa come dire: cose dell’altro mondo!
Finalmente, dopo anni di corteggiamento, l’ho convinta a venire scuola a raccontare la sua storia ai miei studenti di V.
“C’era una vera adesione al fascismo? La gente era davvero d’accordo?” “i ricchi sì! Noi poveretti facevamo la fame, ma non si poteva dire niente. Per la mia generazione, poi, era normale, non avevamo mai visto una situazione diversa. I nostri genitori invece sapevano, ma non potevano parlare, era pericoloso. Certi sparivano per frasi banali che si erano lasciati scappare, poi abbiamo scoperto che erano finiti nei campi di concentramento… Dopo la guerra mio padre ci ha spiegato tutto, allora ho capito molte cose: lui si era sempre rifiutato di far la tessera del partito, così io ho dovuto lavorare in nero per un po’, perché non davano il nulla osta per lavorare, io non sapevo che fosse per quello, poi ho capito. Poi per fortuna c’è sempre una persona di giudizio che ti dà una mano e ho potuto iniziare a lavorare nello stabilimento del tessile.
Ho capito anche perché non mi facevano partecipare al sabato fascista… vedete a quell’età mi dispiaceva, molte compagne andavano, sfilavano con la divisa… ecco: mia mamma diceva che non avevamo i soldi per comperare la divisa, lo diceva anche alla maestra, che insisteva perché andassimo.
Mio padre mi mandava anche a dire agli altri che ci si vedeva in oratorio alla tal ora, poi mi ha spiegato che si riunivano clandestinamente, che preparavano “il dopo” quello che sarebbe successo con la fine della guerra”
Il “dopo” mia nonna lo racconta come la fine della fame con cui per anni aveva dovuto convivere “l’esperienza più difficile”, e con la grande scoperta della libertà, una libertà fatta di comizi e manifestazioni, di poter finalmente e improvvisamente dire quello che si pensava, di litigi tra “bianchi e rossi” che però, almeno dalle sue parti, non arrivavano mai alla violenza e non facevano venir meno la cordialità. Un clima non certo paragonabile a “prima” quando nessuno poteva dire quello che pensava, la normalità era fatta di paura e violenza e l’unica voce pubblica era quella del duce, i cui discorsi erano trasmessi via radio nelle scuole e nelle piazze.
“Eravamo poveri, ma eravamo contenti, cantavamo nei cortili, cantavamo in fabbrica… Sono grata della mia vita, sono felice, anche di aver vissuto in tempi in cui il terzo mondo eravamo noi!”
Albert Camus scrive nell’editoriale di Combat del 25 agosto 1944, raccontando della prima notte di Parigi liberata dall’occupazione nazista:
In questa notte senza pari culminano quattro anni di una storia spaventosa e di una lotta indicibile in cui la Francia ha dovuto fare i conti con il proprio odio e il proprio furore. […]
Quattro anni fa, in mezzo alle macerie e alla disperazione, degli uomini si sono alzati e hanno assicurato con tutta tranquillità che nulla era perduto. Hanno detto che occorreva continuare e che le forze del bene avrebbero potuto un giorno trionfare sulle forze del male. Certo, a caro prezzo. E loro hanno pagato questo prezzo. Un prezzo sicuramente pesante, gravato dal peso del sangue e dall’atroce pesantezza delle prigioni. Molti di quegli uomini sono morti, altri vivono da anni in un carcere buio. Era il prezzo che andava pagato. Eppure quei medesimi uomini, se potessero parlare, non ci invidierebbero la gioia terribile e meravigliosa che ora sta rifluendo in noi come una marea. Tale gioia, infatti, non contraddice i loro sforzi, anzi, li giustifica e ci dice che sono stati sforzi ben spesi. Uniti per quattro anni in un’eguale sofferenza, continuiamo a esserlo in un’ebbrezza eguale.
Abbiamo conquistato la comune solidarietà. E riconosciamo con stupore in questa notte travolgente che per quattro anni noi non siamo mai stati soli. Perché abbiamo vissuto gli anni della fratellanza.
Oggi è un giorno per ricordare chi “in mezzo alle macerie e alla disperazione, si è alzato e ha assicurato con tutta tranquillità che nulla era perduto”. La resistenza indica a me, ora, innanzitutto la possibilità di non cedere alla tentazione della fatica e della difficoltà, allo scoramento rispetto alla possibilità di cambiare, alla sfacciataggine di dire che le cose vanno troppo male per poter costruire qualcosa di buono.
Quanto mi è utile ripensare alle condizioni materiali, quotidiane, in cui vivevano i partigiani, ma anche le persone normali, lavoratori, madri e padri, durante gli anni della guerra e della dittatura! Il loro resistere era anzitutto alla fatica, alle intemperie, alla paura, al dolore.
Quanto ho bisogno di ricordare qual è la posta in gioco, quali sono i miei ideali, quali cose amo, per resistere alla mia debolezza, alla mia inettitudine alla fatica e allo sforzo, che condivido, mi pare, con molti miei coetanei cresciuti come me nell’assoluta estraneità alla durezza della vita.
Questo bisogno mi fa tornare a Pavese, a quelle righe a cui ho accennato.
Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitato sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
La gratitudine e la responsabilità dell’essere vivi: una scoperta che scava ben più in profondo delle ideologie, delle parti, degli interessi. Sempre di più sono convinto del legame tra questi due sentimenti: la gratitudine vera, la percezione che ciò che abbiamo non ci è dovuto, non è scontato, ma dato, questo alimenta una responsabilità altrettanto vera, creativa, accogliente, non doveristica, non pesante da portare.
È tristemente visibile l’inverso: chi non vive la gratitudine, chi anzi sta aggrappato al proprio possesso e al proprio status come fosse il minimo dovuto, da difendere da minacce che arriverebbero da ovunque, chi non si rende conto del privilegio di vivere in questi tempi e in questi luoghi, difficilmente vive una responsabilità, difficilmente può lottare per il bene, difficilmente si sacrifica per la libertà di tutti.
Oggi forse i morti che ci interrogano non s’incontrano d’improvviso sulle colline, ma affiorano dal mare. Chi ha letto quelle righe, oppure chi ha cercato, a suo modo, di fare proprio l’insegnamento degli uomini che anno vissuto la guerra, la resistenza, la liberazione, difficilmente potrà cedere alle adulazioni ipocrite di chi indica chi è disperato come nemico, di chi predica paura e chiusura.
Ma anche di chi cade nella trappola della cattiva fede e della retorica dobbiamo avere cura.
Scrive infatti ancora Pavese in un articolo commuovente del ’45, a guerra appena finita su l’unità:
Questi anni di angoscia e di sangue ci hanno insegnato che l’angoscia e il sangue non sono la fine di tutto. Una cosa si salva sull’orrore, ed è l’apertura dell’uomo verso l’uomo. Di questo siamo ben sicuri, perché mai l’uomo è stato meno solo che in questi tempi di solitudine paurosa. Ci furono giorni che bastò lo sguardo, l’ammicco di uno sconosciuto per farci trasalire e trattenerci dal precipizio. Sapevamo e sappiamo che dappertutto, dentro gli occhi più ignari o più torvi, cova una carità, un’innocenza che sta in noi condividere. Molte barriere, molte stupide muraglie sono cadute in questi giorni. Anche per noi, che già da tempo ubbidivamo all’inconscia supplica di ogni presenza umana, fu uno stupore sentirci investire, sommergere da tanta ricchezza. Davvero l’uomo, in quanto ha di più vivo, si è svelato, e adesso attende che noialtri, cui tocca, sappiamo comprendere e parlare.
Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di timidezza o di ironia. […]
Il nostro compito è difficile ma vivo. E’ anche il solo che abbia un senso e una speranza. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione. Ci ascolteranno con durezza e con fiducia, pronti a incarnare le parole che diremo. Deluderli sarebbe tradirli, sarebbe tradire anche il nostro passato.
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