Costume
Il giornalismo dei maestri tra tradimento e potere
La lingua è aspra e mimetica, lo sguardo del reporter è disincantato: una certa alterigia lo caratterizza, ma l’occhio non manca di empatizzare con i personaggi che spesso assumono la forma romanzesca del noir in un impasto abbastanza tipico del neorealismo letterario. Il bandito Cavallero di Giorgio Bocca ora riproposto da Feltrinelli, che in origine nel 1968 si intitolava solo Cavallero, è uno dei più limpidi e migliori esempi di reportage giornalistico italiano.
Con questa inchiesta Giorgio Bocca ha probabilmente espresso il meglio delle sue qualità investigative, intuitive come narrative. La vicenda del partigiano torinese Piero Cavallero si attaglia alla perfezione a Giorgio Bocca; un impasto incredibile in cui ideologia, rivalsa sociale e irrequietezza giovanile si fondono attorno ad una figura tragica quanto maledetta che diviene il simbolo di una modernità metropolitana che inizia a lasciare sul campo il disagio di una periferia (qui Barriera di Milano di Torino) isolata e violenta oltre che tradita da una politica che era allora ancora, nel vero senso della parola, sangue e carne viva.
Tuttavia l’inchiesta, pur non tradendo un ritmo che a distanza di oltre quarant’anni dalla prima pubblicazione emoziona ancora il lettore, manca di una narrazione capace di sostenere uno sguardo che non si limiti a una costruzione bidimensionale dei personaggi, che troppo spesso hanno il sapore di figurine da spiccia letteratura di genere. Proprio quando tenta di spiccare il volo oltre la cronaca, Giorgio Bocca perde infatti presa sul reale e si ritrova in una ricostruzione bozzettistica priva della dimensione letteraria capace di tramandare le vicende di Piero Cavallero e della sua banda oltre la contingenza dell’attualità. Per quanto quindi onesta, affabile e a tratti evidentemente efficace, l’inchiesta sconta una narrativa troppo ruvida e in alcuni passaggi fortemente inefficace. La causa sembra risiedere principalmente in quella visione culturale tutta italiana che vede una distinzione netta tra cultura alta e bassa e che riduceva spesso il giornalismo a una lezione di verità, priva però di uno spessore argomentativo e linguistico tipico di quello angloamericano.
E se Il bandito Cavallero rimane oggi un libro tutto da leggere quale lezione di giornalismo (ha pienamente ragione Piero Colaprico nella prefazione) tuttavia evidenzia i limiti di un giornalismo all’italiana che troppo spesso ha scelto la via dell’immediatezza o peggio ancora di una presunta verità e non quella di un lavoro di raffinato cesello capace di evidenziare prima di tutto le contraddizioni di un’epoca.
E non è un caso che se si pensa ai padri del giornalismo italiano del dopo guerra, i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Giorgio Bocca, Enzo Biagi, Eugenio Scalfari e non ultimo Indro Montanelli (invece che ad esempio nomi come Corrado Stajano, Camilla Cederna, Marco Nozza, Tina Merlin e Luigi Pintor). Ossia figure che sicuramente hanno avuto un ruolo centrale e qualità innegabili, ma che hanno principalmente esercitato un ruolo di potere e gestito relazioni di potere. Il potere è stato quindi l’asse portante di quella che è poi divenuta nel giornalismo italiano la principale area di gioco ossia l’opinione a scapito dell’inchiesta ridotta a caso eccezionale, fuori formato.
È rimasto famoso l’intervento di Pier Paolo Pasolini sul potere della televisione in un’intervista, fattagli da Enzo Biagi. L’intervistatore in quell’occasione seppe misurare con grande abilità e ritmo il proprio ruolo, senza nascondere la banalità e l’ovvietà delle sue domande. Ottusità ed efficacia questa sembra essere la lezione. Ovvio e ottuso? No, ovvietà e acutezza perché il senso di realtà, l’adesione ai propri lettori come al proprio pubblico è quello che prima di tutto ha contraddistinto il successo di una scuola che a oggi appare solo superficialmente esaurita, ma che ancora si perpetua.
La principale qualità (tra le varie, e sono parecchie) che contraddistingue il new journalism di Tom Wolfe, Norman Mailer e Hunter S. Thompson, fu il coraggio di cercare nuovi pubblici, andando a scovare storie nuove e raccontandole con un nuovo linguaggio: questo significa essere maestri.
Quello che resta dei “maestri italiani” è un’idea strutturale pesante, antiquata e incapace per definizione di rinnovarsi, ma anzi che ostinatamente si propone e ripropone con il ghigno dei presenti allievi in realtà manieristi scarsi, copie sbiadite come sbiaditi sono i giornali su cui scrivono stancamente e ripetitivamente.
Il bandito Cavallero è la storia di un partigiano che ha contribuito a liberare l’Italia dal nazifascismo con coraggio e spirito di abnegazione. Un uomo, Pietro Cavallero che si sente tradito e perso al punto da diventare lui stesso un’omicida e un bandito. Giorgio Bocca ne fa un ritratto preciso e spietato raccontando per filo e per segno quello che è stato, mostrando però in trasparenza anche quello che avrebbe potuto essere. E in questo ci regala uno spazio possibile in cui per vie diverse, in diverse storie, né lui né Cavallero seppero far loro.
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