Costume
Il gioco dell’avidità
Dopo tanti accenni nel pezzo precedente:
, andiamo adesso a fare una passeggiata per i sentieri dell’avidità, la variante principale dell’avarizia.
Questa qualità, come la gemella, si manifesta pure assai frequentemente e irrompe anch’essa nelle nostre vite, influenzandole parecchio e contribuendo ad arricchire le complicazioni della nostra società attuale.
Sembra, dall’intensità con cui si manifesta, essere un impulso primario difficilissimo da tenere a bada: l’avidità, a differenza dell’avarizia che, volendo, si può circoscrivere, almeno nel significato primario, al possesso di beni materiali e di una voluta mancanza di condivisione con gli altri, ha un territorio d’azione più ampio coinvolgendo la maggior parte delle condotte umane in molteplici campi.
Il bello è che nell’epoca odierna, dove tutto è esibito, a dispetto delle leggi sulla privacy, e dove basta postare una foto su facebook che immediatamente la vedono pure su Saturno, l’avidità viene sfoggiata, appunto, come un valore aggiunto. E non è solo mostra di opulenza. Nella maggior parte dei casi è ostentazione di potere, che non deriva necessariamente da quanti soldi si possiedono.
Come sempre la politica è lo specchio migliore dove mirare le debolezze e gli eccessi dei suoi membri perché sovente il potere accieca e quindi fa perdere letteralmente di vista la misura dell’esibizione. Soprattutto in quest’epoca, dove, grazie ai media sempre più invadenti e fuori controllo, la comunicazione viaggia ancor più in tempo reale e sfugge alle maglie di una sorveglianza accurata perché nell’intervallo di un battito di ciglia l’azione si moltiplica esponenzialmente, spesso sfuggendo alla volontà del comunicatore: non si ha neppure il tempo di riflettere e pentirsi di un post rilasciato distrattamente su facebook o instagram che già quella disattenzione è stata propagata globalmente. E siccome ormai i politici, come i teenager, fanno uso dei social networks pure per andare a fare la pipì e annunziarlo al mondo, una distrazione può diventare un caso di stato.
Il mondo della politica, pertanto, come per l’avarizia in precedenza osservata, offre vari spunti di avidità che all’inizio, quando non si era ancora abituati all’odierna fretta, stupivano per l’audacia e la spudoratezza. In passato soltanto imperatori e dittatori potevano permettersi di mostrare il loro potere assoluto e le loro manie; Caligola, il Re Sole, i papi, Napoleone, fra i tanti, furono ricordati dai cronisti delle rispettive epoche per i loro eccessi, ma loro gestivano poteri assoluti ed erano realmente come la Regina di Cuori di Alice: a chi non si conformava veniva tagliata la testa. Vale di certo anche per gli innumerevoli dittatori militari del Novecento, ben peggiori di quelli del passato remoto; o, forse, ci appaiono peggiori perché abbiamo più documenti disponibili della loro insaziabile avidità di potere sulle persone e su tutto e quindi possiamo enumerare con maggior precisione i loro delitti e vomitare per l’orrore. Inoltre, sempre grazie a una comunicazione di massa ancora agli albori rispetto all’attuale, le nefandezze di quelle persone sono assurte quasi a mitologia, proprio per l’eccesso e per l’allontanamento da ciò che è considerato civiltà.
Hitler, Mussolini, Franco, Videla, Pinochet, sono i più mitizzati e quasi santificati da alcuni posteri nostalgici, soprattutto giovani che non hanno conosciuto quelle atrocità e che si beano di una mitologia inventata e narrata attraverso “le cose buone del fascismo”. Succede meno per Stalin o Ceausescu, Hoxha, Barre, Karadžić, e altri di matrice comunista o socialista, chissà perché. In genere vengono classificati come mostri, demonizzati e basta, ben più dei concorrenti della destra, mentre forse la loro avidità di potere e i genocidi che hanno perseguito è tale e quale ai colleghi o di poco inferiore. A nessuno verrebbe in mente di vendere dei souvenir con effigi e frasi celebri dei suddetti, nei loro paesi d’origine, come in Italia se ne commerciano impunemente colle facce del Duce e di Hitler.
Un tempo non molto lontano, invece, il politico delle nostre moderne democrazie aveva più riguardo nel manifestare una sua avidità pubblicamente. Se gli scappava di farlo, e gli scappava, poteva accadere che fosse immediatamente redarguito dal partito o anche da un’opinione pubblica che disapprovavano l’eccesso. Intervenivano, quando riuscivano a passare attraverso le maglie della censura, anche attori e imitatori dei varietà televisivi o cineasti irriverenti con film satirici a sottolineare i difetti dei politici: Totò, Valeri, i De Filippo, Sordi, Fabrizi, Buzzanca e molti ancora hanno stigmatizzato i politici meglio di ogni altro. Oggi, però, gli attori sono in serie difficoltà perché gli attuali politici titolari superano di giorno in giorno le parodie di sé stessi e inaspettatamente, lasciando i primi completamente spiazzati. Inoltre lo scandalo sessuale oggi non interessa più a nessuno, anzi è visto come un marchio di garanzia da latin lover, prima gli italiani.
Di conseguenza pure il resto della popolazione si rifaceva agli esempi ipocritamente morigerati, considerati degni, la pubblica opinione era configurata sul modello virtuoso. Solo per fare un esempio di costume, un tempo, perfino in spiaggia, un politico, se doveva mostrarsi e farsi fotografare, si presentava in giacca e cravatta; oggi invece pance al vento e molto altro al Papeete, con rutti e schiamazzi. E quindi anche oggi, mutatis mutandis, la politica porge un incentivo a seguire l’ammaestramento, perché il posto di visibilità che occupa e ciò che il politico rappresenta, la responsabilità che incarna, è visto come un faro nella notte. Ciò a prescindere dal valore di quello che il politico vuol comunicare. Le masse, almeno quelle italiane, seguiranno sempre i loro ducetti, soprattutto nei loro vizi detestabili.
Il Cavalierissimo – ormai un ex anche lui – pubblicamente esibiva dove lo aveva condotto la sua avidità, spacciata per sapienza imprenditoriale e puro edonismo (che passava per chic), lautamente distribuendo il falso segnale che chiunque sarebbe potuto diventare come lui, le mogli, le fidanzate, le ballerine, le escort. Perché poi l’uso del vocabolo “escort”, così dolcemente esotico, da accompagnatore o accompagnatrice di bella presenza ha cominciato a nascondere semanticamente qualcosa di più, con larga elargizione di “fiorellini” da parte di papito, ma l’odierna ipocrisia idiomatica lo fa diventare quasi un titolo nobiliare: sai, io sono una escort, mica posso scendere al tuo livello, se mi vuoi devi darmi dieci roselline.
Quanto lavoro ha elargito il nostro eroe, facendo però lievitare le tariffe. Ora, purtroppo, il Cavalierissimo è un romantico ricordo e pittoresco, quasi da rimpiangere il perenne burlesque offerto al pubblico. Ci manca la bandana presidenziale della Costa Smeralda, look piratesco chic che ha trovato immediata imitazione ovunque. Così come ci mancano i favolosi inni-ballate con gente d’ogni forma e d’ogni età osannando “Meno male che Silvio c’è”, sono momenti irripetibili del politkitsch. Al cavalierone va ascritta, per onestà, l’attribuzione di essere stato il primo in Europa a fondere la politica dell’ultima parte del secolo collo spettacolo, ogni sua apparizione era come un circo intero che si spostava. Orrenda e affascinante, buona parte della saga raccontata nell’ineffabile autobiografia in terza persona “Una storia italiana” distribuita a tutte le famiglie d’Italia come fosse il catalogo postal market, geniale e perversa: avidità smisurata di approvazione, voglia di piacere necessariamente a tutti, per avere i loro voti.
Nemmeno il grande pettegolo di Roma antica, Svetonio, grande sceneggiatore di storie imperiali alla corte di Adriano, sarebbe riuscito a far di meglio.
Un altro pinocchio che si proclamò rottamatore e promise, sempre per avidità di voti, di far tabula rasa di tutto il passato, fece breccia nel cuore di molti, ma poi i voti stessi per un azzardato e confuso referendum voltarono la faccia altrove e non gli finì benissimo. Come il Cavalierone torna un po’ di moda adesso, ma è un fuoco di paglia, vintage però. Ruspa!
Quando poi il politico, nondimeno, si presenta come il padre di sessanta milioni di figli – surclassando il Cavalierissimo – allora è chiaro che ciò che lui fa per molti seguaci diventa indiscutibile, quasi li commuove, quasi li fa realmente sentire parte della famiglia universale dove nessuno sarà trascurato perché papà è sempre lì che pensa a te. Sarà arduo suddividere per sessanta milioni di eredi il lascito paterno, vista l’avidità dei figlioli stessi, ormai ben istruiti e intrisi di quella dalle generazioni di governi precedenti. Anche quest’ultimo divo è diventato un ex e i tempi di metabolizzazione si accorciano, assecondando il dinamismo dei tempi che viviamo. Tutti e tre gli eroi continuano ad agitarsi ma l’inesorabilità dei tempi li surclassa. Troppo sovraesposti, il pubblico è avido di spettacoli sempre nuovi.
Nel frattempo l’avidità, che inevitabilmente implica la competizione, comunicata al pubblico e ben assorbita in ogni strato sociale grazie anche a un livello di benessere comune tra i più alti del mondo, si moltiplica per partenogenesi, il dado è stato lanciato e il brodo è fatto.
L’avidità del potere è una delle cose più appariscenti della nostra epoca perché la bramosia di onnipotenza è una sindrome difficile da tenere a bada se non si è più che equilibrati.
Se poi si parte già da un narcisismo di base abbastanza accentuato ed evidente l’avidità distrugge, vedi mio articolo qui:
L’esempio del Re Mida che, volendo tutto l’oro del mondo, si pentì amaramente delle sue scelte avventate dettate dalla cupidigia, è lì a ricordarci come si possa rischiare di restare invischiati nelle proprie bramosie senza riflettere.
La smania dell’avere sempre più e del volerlo tenere per sé e basta si manifesta, naturalmente, in molte altre occasioni, più o meno gravi. Abbiamo visto le conseguenze dell’avarizia nel precedente brano.
Qui vorrei mostrare come l’avidità del possesso delle persone si volge sempre in tragedia.
Ci sono delle persone che credono di aver diritto di possedere gli altri. È una traslazione dello schiavismo, una sua modernizzazione, visto che, ufficialmente, almeno nelle democrazie occidentali, non sarebbero più previsti i servi della gleba. Che poi gli schiavi si ripropongano camuffati nelle aziende agricole – e non solo – attraverso lo sfruttamento di poveri migranti, a volte anche di braccianti autoctoni, è una delle favolose e artificiose doppiezze della nostra epoca. È pur vero che esistono anche degli schiavi consenzienti, vedi quei cinesi che considerano un onore essere schiavizzati da certi loro concittadini sedicenti imprenditori, perché fa parte della scala di valori che molti si portano dietro dall’Oriente. A dispetto di Mao e dei libretti rossi, ormai archeologia, tutt’al più souvenir per i turisti in visita al Celeste Impero, come le fintissime statuette funerarie egizie in vendita all’aeroporto del Cairo.
Il possesso delle persone si manifesta in molti atteggiamenti e usi in diverse società, ma limitiamoci alla nostra per non spaziare troppo, anche se un accenno all’odierno re della Thailandia, Rama X, cadrebbe a fagiolo. Il re anticonformista, dopo aver divorziato dalle mogli precedenti, sorprende tutti e sposa la sua guardia del corpo (ex-hostess) ben più giovane e concubina, ma, al momento delle sue nozze, obbliga la sua nuova regina a strisciare per terra insieme a tutti gli altri cortigiani, per mostrare chi comandi in casa e che lei sia comunque una sua proprietà. Tutto, per non sbagliarsi, viene mostrato in mondovisione. Per non parlare della schiavitù sessuale a cui sono sottoposti donne, uomini e bambini in paesi del sud est asiatico (e non solo), dove vanno i ricchi turisti occidentali, avidi di sesso, che rimpinguano le tasche degli avidi schiavisti locali, è il festival dell’avidità.
Una congrega di gente avida di possedere le persone (e le loro cose) è, altro esempio, l’Opus Dei, il braccio armato della Chiesa fondato in Spagna nel 1928 da Josemaría Escrivá de Balaguer. Colla scusa della santificazione del lavoro Escrivá e i suoi adepti facevano – e fanno – una terribile opera di coercizione per i discepoli dell’Opera, incardinandoli e facendoli rinunciare ai propri possedimenti, naturalmente obbligandoli a cederli all’Opera stessa, Magna Mater. Eh sì, magna magna… L’avidità dell’Opera la rese potentissima e la rende ancora più potente oggi. Non esiste banca che non abbia uomini o donne dell’Opus Dei nelle file direttive, Monte dei Paschi, Antonveneta, Popolare di Verona, Unicredit e così via, per parlare solo di quelle italiane. Lo IOR, va da sé. Imprenditori affiliati, non si contano. Avidità, avanti tutta. Ma, a differenza della politica, l’avidità ecclesiastica viene ostentata molto poco. È, piuttosto, celata o dissimulata, tutto avviene nell’ombra e allarga le grinfie rapaci in ogni aspetto della vita quotidiana, sebbene sia difficile da notare. Anche perché sono cose che devono durare per sempre, non come i politici che vivono, in confronto, quanto una farfalletta, e che sono usati dall’Opera. Ma andiamo avanti.
Il possesso delle persone si rivela spesso in famiglia, spingendo soprattutto i mariti col complesso dell’ex a perseguitare le ex-mogli, riuscite a liberarsi di un vincolo-trappola opprimente ed egoista, a giungere fino all’atto estremo. Don José, Otello, Canio e ogni altro antieroe melodrammatico non sono nulla in confronto a questi mostri che riescono pure a sterminare, oltre alle ex, i propri figli, i genitori, i suoceri, e ogni essere vivente attorno, a volte anche sé stessi, perché non si rassegnano al fatto che l’erba voglio per loro non cresca e non possa crescere secondo i propri schemi. Spesso sono uomini (più raramente donne, ci sono anche le Medee, perbacco) e non è raro che siano persone che svolgono o hanno svolto lavori di sicurezza, quindi con armi disponibili sempre e comunque: guardie giurate, poliziotti, carabinieri, militari. Le cronache rigurgitano ogni giorno queste notizie e fanno riflettere su quante persone squilibrate e pericolose ci sarebbero potenzialmente in giro tra coloro che dovrebbero difendere i cittadini e che dai cittadini sono stipendiati. L’avidità di possedere le cose che non sempre si possono comprare, ossia il vero amore e la vera stima, e quindi la massima aspirazione dell’avido D.O.C., davanti all’impossibilità di ottenerli sovente, per coloro, non ha altra evoluzione che la violenza e il gesto estremo. Amen.
D’altro canto i valori che provengono da ciò che viene spacciata per “normalità” sono proprio questi. La “famiglia tradizionale” è una delle trappole più subdole per stabilire ruoli e compiti e quindi diritti e doveri, e il problema si riscontra anche in altre società dove la dimensione religiosa è vissuta in maniera fondamentalista. Le famiglie islamiche, per esempio, dove le femmine sono senza se e senza ma proprietà del maschio, le figlie lo sono del padre e anche dei fratelli, che possono addirittura ucciderle se si dimostrano inadempienti alla volontà maschile. Avviene, per esempio, in famiglie d’immigrati soprattutto d’origine indiana o pakistana che vivono nel medioevo e non si integrano: lo sposo dev’essere deciso dalla famiglia e non si discute. Sana Cheema voleva sposare un italiano ma i maschi di famiglia l’hanno sgozzata perché era inammissibile. Così come pure Hina Saleem, uccisa e sepolta dai familiari nel giardino di casa, vicino Brescia, perché voleva abbracciare costumi occidentali. Anche le famiglie ebraiche integraliste non scherzano riguardo ai matrimoni, sebbene siano meno sanguinolente, ma il possesso dei membri della comunità familiare è molto presente. L’avidità di possedere il corpo, soprattutto femminile, per possedere anche la mente è molto forte e nociva. Le meraviglie della famiglia tradizionale globalizzata.
Il possesso da parte della religione comincia in tenera età, quando si cerca di condizionare fortemente attraverso le varie dottrine il cammino virtuoso del fanciullo o della fanciulla, in modo da favorire un imprinting che durerà per tutta la vita, a meno di non prenderne coscienza in seguito e rigettarlo. L’avidità con cui questo avviene è terribile. Il senso di colpa è il mezzo più infido utilizzato per far breccia nell’intimo degli individui e lì s’innestano in seguito i vari passaggi per condurre la vittima sotto controllo attraverso i vincoli più vari.
Il termine “famiglia”, per realizzare quanto sia forte semanticamente, ha esteso il suo significato anche a piccole o grandi consociazioni umane come le “famiglie” mafiose o quelle religiose, dove l’avidità del potere, del controllo, delle cose e delle persone rende ciechi i suoi membri, pronti a carneficine collettive, con morti collaterali che magari non c’entrano nulla, pur di ristabilire il possesso del territorio e dei “familiari”. La cosa che più fa riflettere è che codesta avidità sia sterile perché costringe buona parte dei mafiosi a vivere una vita clandestina, nascosti a volte sottoterra, prigionieri in tuguri osceni perché, ovviamente, perseguitati dalla legge. Non si riesce neanche a godere i frutti di un’avidità così tenacemente coltivata e perseguita, chissà che piacere provano coloro.
L’avidità del possesso delle persone oggi si esprime anche attraverso i social network, soprattutto da parte dei cosiddetti influencer. Costoro si nutrono avidamente dei like (preferenze) e del numero di visualizzazioni dei loro profili, dove postano senza sosta fotografie, spesso vane, o aforismi celebri o inventati da loro come se fossero maîtres-à-penser, si tatuano “RESILIENZA” in ogni parte del corpo che si possa lasciare scoperta senza scandalo alcun di nostra gente – perché sennò su facebook verrebbe censurata inesorabilmente – e così si mostrano sboroni d’origine incontrollata. Spesso, dopo una breve carriera come influencer, riescono pure a farsi ricevere pubblicamente come ospiti di prim’ordine presso le tv, o presentare dei video anodini a mostre cinematografiche, dove conseguono perfino di farsi attendere come l’evento, moltiplicando le attenzioni e i voti dei follower, in una perpetua sorgente d’esibizione di avidità, l’avidità di avere tanti “amici” quanti sono i like, mentre magari nella vita reale di amici in carne ed ossa non c’è manco una sinopia. La virtualità dell’avidità, soprattutto in questo caso, è più che evidente.
Eh sì, perché l’avidità è una qualità virtuale, non si traduce concretamente in un vero possesso, perché la sua caratteristica – e la sua condanna – è di non essere mai contenti di ciò che si ha: “Greed is a bottomless pit which exhausts the person in an endless effort to satisfy the need without ever reaching satisfaction.” (L’avidità è un pozzo senza fondo che consuma la persona nello sforzo infinito di appagare il bisogno senza raggiungere mai la soddisfazione), scriveva nel 1941 Erich Fromm in Escape from Freedom, Fuga dalla libertà. Ai tempi del liceo, i miei, questo libretto – insieme a molti altri, anche insulsi, va detto – si teneva sottobraccio e si sfogliava traendone spunti di saggezza. Chissà se si fa ancora. Forse varrebbe la pena rilanciarne una lettura.
Soprattutto nel caso in cui una persona ne uccida un’altra perché non riesce a possederla, è evidente il fallimento dell’avidità, perché alla fine l’oggetto bramato non potrà mai far parte dei possedimenti dell’assassino ed è per questo che in molti casi l’omicida, per liberarsi dell’avidità, decide di sopprimere perfino sé stesso. Game over.
Attenzione, una ricerca spasmodica di altro non significa non aspirare a cose migliori, ma è spesso il concetto di cose “migliori” ad essere drogato dal consumismo, consumo che prevede anche l’uso ed abuso delle persone, consenzienti o no.
Se gli scienziati non fossero avidi di sapere probabilmente staremmo ancora all’età della pietra. Ma l’avidità dello scienziato riesce a volte a trasformarsi in patologia e non si ferma davanti a nulla pur di creare Frankenstein o la bomba più distruttiva di sempre e si mescola coll’avidità dei potenti che ingrassano quella dello scienziato per i propri scopi di dominio, degenerando fatalmente.
Per finire in leggerezza, dopo tanta mestizia, proviamo adesso a immaginare l’avidità come un variegato gioco dell’oca. È ciò che fece Jules Verne nel suo romanzo fantastico Le Testament d’un excentrique (Il testamento di un eccentrico), 1899. In questo viaggio straordinario ricco di simboli esoterici, come in altre sue opere, Verne prende di mira l’avidità e lo fa, naturalmente, giocando.
Più o meno la sinossi è questa. Un milionario eccentrico, l’affiliato più celebre dell’Excentric Club di Chicago, muore e lascia la sua immensa fortuna, sessanta milioni di dollari, secondo i suoi voleri testamentari depositati dal notaio più in vista di Chicago, al vincitore di un assai speciale gioco dell’oca. Le regole sono quelle del famoso gioco da tavolo, per la precisione un gioco di percorso, ma la mappa a spirale su cui si svolge il gioco sono gli Stati Uniti: infatti si chiama “Le Noble Jeu des États-Unis d’Amérique – Renouvelé du Noble Jeu de l’Oie – Renouvelé des Grecs” (Il Nobile Gioco degli Stati Uniti d’America – riprodotto dal Nobile Gioco dell’Oca – Riprodotto dai Greci). Gli stati della confederazione sono le caselle ma l’Illinois, lo stato di Chicago dove viveva il milionario, vi appare per ben quattordici volte, fungendo da Oca. I sei giocatori, ossia le pedine viventi, vengono estratti a caso tra la popolazione di Chicago e sono un artista francese (ovviamente), un pugile, un bisbetico commodoro pensionato, una commessa, un usuraio tedesco (ovviamente), un giornalista, ognuno accompagnato da un famiglio o congiunto. Ma, piccolo particolare, vi sarà un misterioso settimo giocatore previsto da una clausola del testamento, identificato da una sigla: XKX. Ogni tiro di dadi il giocatore dovrà recarsi nello stato corrispondente alla casella e ci sono degli stati che corrispondono ai simboli del Gioco dell’Oca, il ponte, la locanda, il pozzo, la prigione, il labirinto e la morte. In ognuna di queste caselle si paga pegno, si oltrepassa, o si sta fermi, e lo stravagante gioco va avanti con suspense e colpi teatrali nello stile di Verne, coi personaggi che svelano le proprie debolezze e le proprie virtù pian pianino. La cosa che li accomuna è l’avidità per la vincita cospicua che, siccome il testamento è quello di un eccentrico signore molto fortunato, sarà conseguita proprio dal misterioso giocatore che si rivela essere nientemeno che il milionario che ha finto di essere defunto e che ha giocato come il gatto coi topi. Tutto resta in casa, alla fine, e forse anche più che in casa per i finali più o meno lieti ed eccentrici che spettano a ciascun concorrente. Il libro è godibile e poco conosciuto ma si può trovare facilmente in giro. Io avevo avuto la fortuna di divorarlo quand’ero ragazzo e una casualità me l’ha riportato alla memoria.
Per invogliare chi si diletta di simbologia e numerologia potrò solo dire che il numero 9 e il numero 7 in molte culture sono numeri magici e sacri. Nel gioco lo stato dell’Illinois compare 14 volte, come l’Oca, alternandosi ogni 4 o 5 caselle e il 63, il numero delle caselle del gioco è 7 volte 9, ed è l’unico non scelto a caso. Illinois sembra essere l’anagramma di Lis e Ilion: Lis=il giglio di Francia e Ilion=l’antica e mitica città di Troia col suo tesoro sepolto riportato alla luce (1873) da Schliemann, seppure con molti pasticci. Essendo piazzato nel gioco al posto dell’oca, l’Illinois assume anche i molteplici significati esoterici dell’animale. Primo tra tutti il destino. Infatti in questo gioco chi decide il destino dei giocatori sono i dadi e l’oca rappresenta le alterne fortune e disagi dell’uomo. Ma l’oca era pure una bestia sacra in Egitto – Amon Ra uscito dall’uovo d’oca primordiale, e quindi una sorta di messaggero celeste – e nell’antichità classica era considerata animale profetico: Iuno Moneta, dea oracolare, e le oche del Campidoglio, come ci tramanda Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, libro X.
I viaggi straordinari di Verne sono pieni di riferimenti a mondi segreti e sotterranei e agli arcani significati che si portano dietro, oltre al godibile svolgimento delle trame e dei personaggi. Gli altri simboli e i loro misteri scopriteli da soli, giocate! Non siate avidi.
© Settembre 2019 Massimo Crispi
Devi fare login per commentare
Login