Letteratura
Il giallo siciliano
Abbiamo appreso in Italia a frequentare il genere “giallo” sia lato scrittura che lato lettura sotto l’impulso dell’imitazione e relativamente tardi rispetto ad altri Paesi dell’Europa fredda. Esclusi lontani esempi milanesi risalenti agli anni ’30 (è il caso di Scerbanenco, neanche italiano di origine ma ucraino) per molti lustri il “giallo” da noi è stato un genere perlopiù importato dal mondo angloamericano e in parte francese. Non ci sono stati per lungo tempo in Italia né il mercato letterario né soprattutto la cultura di base necessaria per farlo fiorire, ossia l’induzione e l’empirismo di scuola anglosassone. L’Italia è stata dominata infatti dall’idealismo gentiliano e crociano e un poliziotto “idealista” non ha gli strumenti tecnici per risalire dagli effetti alle cause. E in più è mancato il “movente” della base morale: ossia la tignosa etica protestante che cerca ostinatamente il colpevole per bonificare la società e ristabilire l’equilibrio. In un Paese cattolico, per secoli corrotto e felice, che faceva la delizia di Stendhal proprio per la facilità e il brio nel saper commettere delitti, la ricerca del colpevole non interessava proprio a nessuno. Questa era anche l’opinione di Laura Grimaldi, per decenni curatrice del giallo Mondadori, che anni fa rilasciò una dichiarazione in tal senso in una intervista.
Un commissario siciliano poi (ricordarsi che un siciliano è un italiano esagerato) che riscuota anche i consensi del popolo siciliano nella sua attività inquisitoria non esiste semplicemente in natura: è solo un trastullo mentale. Riuscito? Come una partita a scarabeo: un gioco con nessuna connessione con la realtà isolana, la quale solo di recente, e in maniera non sempre limpida, anzi piuttosto controversa, sta scoprendo, larvatamente e flebilmente, il valore della legalità. Da qui il tono farsesco e pagliaccesco del Montalbano televisivo, ove tutto è affogato nel colore locale: una specie di commedia strapaesana di Martoglio con l’aggiunta del morto.
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